Il ritorno del «Granducato» di Filippo Ceccarelli
Il ritorno del «Granducato Il ritorno del «Granducato » Con Dini e Cecchi Gori fiorentini al potere LA GEOGRAFIA E IL PALAZZO ASPITA! (con la «c» aspirata), 'aspita i che gli hanno 'ombinato codesti due fiorentini... S'intendono - ovviamente Lamberto Dini e Mario Cecchi Gori. Ale Viola, dunque, «Fiorenza dentro delle mura antiche», la porti un bacione a Firenze, esprit fiorentine e via riesumando vecchie e nuove reminiscenze, vecchi e nuovi stereotipi. L'impressione, comunque, è che fra i tanti effetti il blitz politicotelevisivo sui diritti del calcio riporti in auge anche il Granducato. I due protagonisti sono nati e cresciuti all'ombra del campanile di Giotto. E almeno inizialmente il partito del presidente del Consiglio, di cui il produttore sarebbe uno dei più generosi finanziatori, doveva avere come simbolo il giglio. C'è già pronta, com'è ovvio, pure la profezia di Nostradamus («Flora tiendra la porte en pensement»), interpretata da Renucio Boscolo come la rinnovata irruzione di leader fiorentini sulla scena pubblica. C'è chi è d'accordo, sul blitz, e chi no. E tuttavia, magari forzando un po' gli eventi, verrebbe pure da chiedersi che cosa si sarebbe detto se a Palazzo Chigi e a concludere l'affare del calcio in tv fossero stati, per dire, due siciliani o due calabresi. Perché l'Italia, suggestioni secessioniste a parte, è fatta anche così. Nel caso dei toscani e della televisione, poi, forse vale anche la pena di ricordare che non si tratta di una novità assoluta. E' dei primi Anni Sessanta la grande ondata fanfanian-fiorentina che dal Giornale del Mattino Ettore Bernabei riuscì a incanalare dentro la Rai. C'erano Cresci, infatti, Graziani, Biamonti, Luzi, Citterich e pure quel Fulvio Damiani, animatore del club di giornalisti-tifosi «penne viola», che della lista Dini è indicato oggi come il portavoce. Questo per dire che, baccelloni o ganzi che siano, stupidamente ciarlieri cioè o dritti, i fiorentini (e i toscani in generale) sanno senza dubbio farsi notare. Come tanti altri gruppi «etnici», d'altra parte, che di volta in volta hanno finito per assumere un ruolo di rilievo all'interno del potere, e a Roma in particolare. Insomma, di tanto in tanto capitano anche misteriose alternanze del genere regionale. Eravamo rimasti, infatti, ai tanti milanesi (e lombardi) del Polo, con relativa ideologia e sistemazione perlopiù istituzionale: Berlusconi, Bossi, Pivetti, Scognamiglio, Maroni, Speroni, Gnutti, Miglio e Podestà. E prima di loro, ai tempi del piccone, s'era parlato a lungo - e per la seconda volta (dopo la presidenza di Antonio Segni) della «Brigata Sassari», ossia del gruppo di parenti-collaboratori sardi (Sergio Berlinguer, Alfredo Masala, Salvatore Sechi) raccolti attorno a Cossiga al Quirinale. Sempre a ritroso, negli an- nali del Caf, è difficile dimenticare - anche per i successivi spunti di natura giudiziaria quel super-partito trasversale e governativo (Gava, Scotti, Pomicino, De Lorenzo e Conte), che con la partecipazione straordinaria del vicesegretario del psi Di Donato rappresentava nella capitale un potente avamposto di cumparielli napoletani. E' anche vero che per tutti loro si trattava probabilmen¬ te di una specie di rivincita dopo le amarezze e le umiliazioni subite per diversi anni da parte dell'agguerritissimo «clan degli avellinesi»: De Mita, Agnes, Mancino, Gargani, De Vito, Pastorelli. I quali, si arrivò a chiosare, contavano così tanto nei ministeri, alla Rai e in altri enti pubblici, da aver ormai declassato la gloriosa Napoli ad «Avellino marittima». Il ritorno dei fiorentini sembra così l'ultima puntata di questo colorito andirivieni. I romani, intanto, guardano, chiacchierano e si fanno un po' di conti. Sono, del resto, abbastanza abituati. E | fra imperatori, papi, re e presidenti, da più di duemila anni sanno che non c'è mai nulla di definitivo. Filippo Ceccarelli Dopo i sardi gli avellinesi i «cumparielli» i milanesi e lumbard è l'ora del Giglio
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