«La mia vita in Fiat con l'Avvocato

7 «Il gruppo è solido e la squadra di prim'ordine. Ma il sistema-Italia deve cambiare» «La mia vita in Fiat con l'Avvocato Romiti: credo nell'azienda e nei suoi uomini PARLA IL NUOVO PRESIDENTE Lm TORINO m AZIENDA è solida e io ho Fiducia: nella forza della Fiat e nei suoi uomini. Ma il sistema Italia deve cambiare. Altrimenti, il prezzo pagato alle disfunzioni dal Paese che lavora è troppo alto». E' il primo messaggio di Cesare Romiti Presidente della Fiat. Un messaggio di ottimismo, nella convinzione che l'azienda Fiat continuerà a crescere grazie alle sue risorse, ma anche di preoccupazione e di stimolo, perché l'azienda-Paese deve aggredire i suoi mali (dal debito pubblico alla disoccupazione) per approdare davvero in Europa, senza precipitare nel Mediterraneo. Dottor Romiti, dopo ventidue anni in corso Marconi lei oggi è il presidente della Fiat. Cosa cambia per lei e per l'azienda dopo trent'anni di presidenza dell'avvocato Agnelli? «Io non le nascondo che quando ho preso la parola davanti al Consiglio, l'altro giorno, ero emozionato. E' una cosa che mi dà un po' di fastidio e che cerco di controllare: ma è successo. E non era l'emozione di essere arrivato alla presidenza del gruppo, anche se ne sono orgoglioso e fiero. No: ero emozionato, e preoccupato, per dover succedere a un personaggio che si chiama Gianni Agnelli. Allora ho posato sul tavolo il discorso che mi ero preparato, quello ufficiale. E ho detto ai consiglieri ciò che in quel momento sentivo dentro di me». E cioè? «Ho raccontato come ho conosciuto l'Avvocato, tanti anni fa, come abbiamo mancato il nostro primo appuntamento nel '72 per una "bugia" di Cuccia (disse ad Agnelli che non sarei mai venuto a Toi no e io andai aU'Alitalia), e come infine la Fiat mi catturò due anni dopo, nel '74». Fu direttamente l'Avvocato? «Direttamente no. Mandò Gabetti a trovarmi a Roma, il 31 maggio: lei, mi disse dopo un lungo discorso, verrebbe a Torino per fare due chiacchiere con Agnelli? Risposi: e me lo domanda? Anche a piedi. Poi ricordo che parlando con i miei, vidi che tutti mi mettevano in guardia, usando i luoghi comuni di sempre sulla Fiat e su Torino: vai lassù e dovrai infilarti le mezzemaniche, in quell'azienda diventerai un numero e basta, la Fiat annulla le individuahtà... Più ascoltavo, più dicevo tra me: vale la pena andare a vedere. Vedere Torino, la Fiat, e prima di tutto l'Avvocato». Chi era per lei allora Agnelli? «Lo conoscevo pochissimo. Oggi, ventidue anni dopo, credo di essere una delle persone che lo conosce di più, per aver parlato con lui due volte al giorno, ogni giorno. Posso dire di conoscerlo non solo come uomo d'affari e d'ùnpresa, ma come uomo. Io l'ho visto nei momenti di successo e in quelli di difficoltà. Quando i terroristi ammazzavano i nostri uomini. Quando nell'80 pensavamo che se le cose finivano in un certo modo, ci avrebbero portato via l'azienda. Quando io lo presi a tu per tu e gli dissi: vada via dall'Italia, lasci me in prima linea, qui i tempi sono troppo brutti, lei è la proprietà e la proprietà va preservata». Questa conoscenza fa sì che l'Avvocato non riesca più a sorprenderla? «Mi ha sorpreso poco tempo fa: l'I 1 dicembre, quando ha annunciato che mi lasciava la presidenza. Se le racconto come sono andate le cose, si stupirà. Cinque giorni prima decisi di andare con mio nipote quattro giorni in Spagna. Non telefonai mai a Torino, fu una vera vacanza, per "staccare". Tornai in tempo per andare alla riunione annuale dei dirigenti Fiat al Lingotto, dove dovevamo parlare sia io sia l'Avvocato. Al break delle 11, Agnelli mi chiese di prendere un caffè con lui in un salottino. E lì, da soli, con il bicchiere di carta in mano, mi comunicò che lasciava la presidenza, che toccava a me, e che pochi minuti dopo lo avrebbe detto in pubblico». Elei? «Io non me lo aspettavo, mi colse di sorpresa. Avvocato, gli dissi, non è meglio se ci pensa bene? Ci ho pensato molto bene, mi rispose, e nel modo migliore: da solo». Dottor Romiti, come definisce il suo rapporto con l'Avvocato? Si può parlare di amicizia? «Forse la parola gli darà fastidio: ma io nei suoi confronti provo mol- to affetto. E mi fa piacere che lui abbia detto che non vuole fare un passo indietro, ma di fianco. Quando avremo bisogno, lui sarà lì». Per vent'anni vi siete parlati due volte al giorno: mi spiega come mai vi siete sempre dati del lei? «Perché è così. Non glielo so spiegare. Dò del lei a Mattioli, che ha lavorato con me anche prima della Fiat, e a Cantarella, su cui ho puntato fin dai suoi primi passi in Fiat. Forse, quando andrò via di qua, dirò: Cantarella, Mattioli, adesso diamoci del tu, Con l'Avvocato, il lei è automatico, da sempre. Forse è un modo di essere di questo palazzo, forse di questa città o di questa parte dell'Italia, chissà». Senta, che momento è questo per la Fiat, mentre c'è il cambio della guardia? «Non è affatto un brutto momento. Anche perché mi lasci dire che io qui dentro ho visto momenti veramente terribili». Sta pensando al terrorismo? «Sì, ma non solo. Se andiamo per ordine devo ricordare che sono arrivato in corso Marconi subito dopo la crisi del petrolio, con i piazzali pieni di automobili, la prima cassa integrazione, un disastro. Vuole sapere la verità? Nel '74 a fine anno la Fiat non aveva i soldi per pagare gli stipendi. Si rende conto? Organizzai un incontro a Milano con le banche, per spiegare la situazione e chiedere di darci una mano, e ci andai con il capo della Finanza Fiat di allora. Bene, per tutto il viaggio continuava a disperarsi: che vergogna, la Fiat che chiede soldi alle banche...». Altri momenti terribui? «La stagione del terrorismo, che a un certo punto sembrava non dovesse finire mai. Ho sempre pensato (e non l'ho mai detto) che chi non ha vissuto a Torino in quegli anni non sa cos'è stato davvero il terrorismo. Ricordo i funerali di Ghiglieno, la convinzione che potessero colpire chiunque e dovunque, quando volevano: quella chiesa con tutto lo Stato schierato nel lutto, fuori la città adirata e angosciata. Ricordo Carlo Casalegno, il vicedirettore della Stampa assassinato. E tutti i nostri uomini gambizzati: correvo in ospedale ogni volta, guardavo le loro facce, le trovavo comuni, "nor- mah", capivo che li colpivano proprio per questo. Tornavo a casa e mi domandavo che cosa avrei fatto se mi fossi trovato i terroristi davanti, se avessero tentato di rapirmi. E ogni volta la risposta era una sola: se mi deve capitare, è meglio che mi ammazzino». E quando ha saputo che un piano per il suo rapimento c'era davvero? «Mi sono chiesto un'altra cosa: questa notte, con quel che ho saputo, riuscirò a dormire o avrò paura? Poi passò bene quella prima notte. E' andata, mi dissi. Ma la vera svolta venne solo con il 1980, i 35 giorni, la marcia dei quarantamila». Perché? «Si chiuse un'epoca, finirono tante cose che erano durate troppo a lungo e avevano fatto troppi danni. Fu una svolta, che davvero fece "girare" il Paese, indirizzò lo stesso sindacato verso una strada moderna, europea, di confronto non per distruggere ma per costruire qualcosa. Riprendemmo il controllo della fabbrica, che era perduto. E per farlo rischiammo grosso, rischiammo tutto. E potevamo perdere tutto. Valentino Parlato, anni dopo, mi ha chiesto come facevo in quei giorni ad essere così sicuro di vincere, quando lui era convinto che ci sarebbe stata la vittoria del proletariato e il sovvertimento del sistema. Ti sbagli, gli ho risposto, io non ero affatto sicuro di farcela. Anzi, ero pieno di dubbi, e ogni sera andavo a dormire temendo che la mattina dopo saremmo stati sconfitti. Ma sapevo, molto semplicemente, che dovevamo andare avanti. Lo sapevo io e lo sapeva l'Avvocato, che anche di fronte alle pressioni dei politici mi lasciò fare». C'è un altro momento critico, ed è quando Gheddafi entra alla Fiat: come andò davvero? «Tutto nacque da un contatto dell'ingegner Gioia, direttore generale: ci sono questi libici, vorrebbero entrare, che facciamo? Andammo da Cuccia. E lui, in un segreto assoluto, trattò per 19 mesi. Diciannove mesi in segreto, ha capito? Ogni volta lui e l'uomo di Gheddafi scrivevano qualche paragrafo dell'intesa, poi per tre mesi i libici sparivano, non si vedevano più. In Fiat sapevamo della cosa solo in tre, l'Avvocato, Umberto Agnelli ed io. L'ultima mattina, quando tutto era pronto e Cuccia doveva vedere il suo interlocutore all'una, ci incontrammo a Roma, a casa dell'Avvocato. Dovevamo dire sì o no, e Agnelli era molto preoccupato: bisogna tener conto dei suoi legami con l'America, delle critiche che potevano arrivargli dalla famiglia, da suoi amici italiani come Ugo La Malfa, che effettivamente poi ci at- tacco duramente. Insomma, ci voleva coraggio. E Agnelli lo ebbe, lo conoscevo le difficoltà della Fiat, e premevo per il sì. L'Avvocato disse sì, Cuccia poteva andare avanti. L'affare si concluse e fu davvero im affare, perché i libici col loro ingresso ci diedero una mano formidabile. E molti altri ci appoggiarono. Ricordo che Baffi, l'allora governatore della Banca d'Italia, quando l'Avvocato glielo comunicò, quasi lo abbracciò per il forte apporto di valuta in un momento estremamente critico per le nostre riserve».. E arriviamo alla sfida dell'89, la «qualità totale». Ha davvero cambiato l'azienda? «Profondamente. La Fiat credeva di essere hivùicibile, il problema della qualità non le entrava in testa, la riteneva un costo, mentre mvece è la non-qualità che costa. Con quella battaglia abbiamo cambiato la mentalità dell'azienda». Duìne l'ultima crisi, la bufera di Tangentopoli. Anche la Fiat è rimasta coùwolta. Perché è successo? «Potrei risponderle in tanti modi, per comodità. Ma dico la verità: sono Etati episodi dolorosi, che facevano parte dei tempi che si vivevano. Ricordo che a fine settembre '92, intervenendo in un convegno a Milano con il cardinal Martini, non ebbi ritegno a dire che, come cittadini e come imprenditori, non potevamo non vergognarci per aver ceduto a quel clima, a quelle pressioni. Per noi - salvo le conseguenze giudiziarie - e una storia finita per sempre. Siamo stati i primi in Italia ad istituire mi codice etico, che prevede il licenziamento di ogni dipendente, anche se concusso, al semplice insorgere di un episodio di corruzione. Quei fatti sono alle nostre spalle». Lei ha parlato molto, fin qui, dell'Avvocato. Ma molti, oggi che lei è presidente, accostano la sua figura a quella del professor Valletta. Si riconosce in questo parellelo? «Il professor Valletta è stato per me un modello. Qualunque pai-agone sarebbe assolutamente inappropriato. Nei vent'anni in cui, dal '46 al '66, ha gestito l'azienda come presidente operativo, si è trovato nella necessità di accentrare al massimo le decisioni. La mia esperienza alla Fiat, in anni molto successivi, mi ha indotto invece a gestùe creando una squadra di diligenti cui delegare il più possibile le responsabilità». E oggi, che Fiat trova da presidente? «E' molto solida. Le grandi aziende di cui è proprietaria (Fiat auto, Iveco, eccetera) sono iscritte nei libri a costi storici, quindi due o tre volte meno del loro valore. Poi, la Fiat è a posto per quanto riguarda gli uomini, con giovani che sono arrivati al vertice e altri dietro a loro, pronti per crescere. Il mestiere invece è difficile, con un prodotto - l'auto - molto complicato, una concorrenza che non ti risparmia e una forte disoccupazione in tutta Europa, che non consente ai consumi di ripartire. Allora, poiché l'azienda è solida, deve puntare sulle risorse interne, riducendo i costi, abbassando il break-even. Altra strada oggi non c'è». La nomina di Cantarella ad amministratore delegato è la conferma che l'auto è il corebusùiess, ina è anche un forte segno di cambiamento: per lei, quale di questi due segnali vale di più? «Contano entrambi. L'auto, molto semplicemente, è il 50 per cento della Fiat. E Cantarella, uomo che viene dalla produzione, dall'officina, è giovane, intelligente, sa essere severo, ma ha un tratto simpatico. In più, è un piemontese vero, che sa parlare il dialetto. Questo è importante. Lo dico io che sono romano, e non per provincialismo Fiat. Noi sappiamo bene che il nostro teatro è il mondo, ma le radici devono rimanere piemontesi, la nostra forza è in questa identità». Ma lei, farà davvero il presidente, lascerà campo ubero a Cantarella? «Certo che lo farò, perché devo farlo. Se le cose andranno bene, sarà principalmente merito di Paolo Cantarella: il mio compito, se servirà, è di tirargli la giacca, ogni tanto». Che obiettivi dà alla Fiat di Cantarella? «Uno soprattutto. Cercare lo sviluppo nell'espansione territoriale, aggredendo i mercati dove oggi non siamo, a cominciare dal SudEst asiatico. E per questo occorre ancor più concentrarsi nel corebusiness». Avete mai pensato di vendere la Fiat? «No, ma se si riferisce all'episodio della Ford, le cose andarono così. Verniero a cercarci, io proposi una joint-venture per l'Europa, con il 51 per cento a noi, il 49 a loro, un nostro uomo alla guida, e sarebbe stato Ghidella. Il matrimonio avrebbe consentito rispanni di costi per miliardi di dollari e la Ford si entusiasmo chiedendo una proprietà 50 e 50. Dicemmo di si. Poi ci chiesero la maggioranza, dilazionandola al momento in cui l'Avvocato avrebbe lasciato. E su questo ci fu la rottura. Tutti d'accordo l'Avvocato, Umberto, Ghidella e io - dicemmo di no. Significava vendere allo straniero l'industria automobilistica italiana. L'accordo saltò proprio su un problema di sovranità». Lo stesso problema non nasce con le alleanze, che periodicamente Fiat prende in esame? «Ricordiamoci sempre che dopo la guerra c'erano 40 case automobilistiche in Europa, oggi sono 7. E sono ancora troppe. Servono accorpamenti, e prima o poi ci si arriverà, anche se i nazionalismi ostacolano ogni intesa». Lei dice che la Fiat è in salute e si sente forte: ma quanto pesano le disfunzioni del sistema-Italia sull'azienda? «Troppo. Provi a enumerarle: l'instabilità politica: l'entità del debito pubblico; il peso del deficit annuale; la penalizzazione del costo del denaro; la disoccupazione». Che cosa si aspetta dalle elezioni del 21 aprile? «Intanto la Fiat è fuori da ogni contesa politica, perché noi dobbiamo fare solo il nostro mestiere. In generale, non credo al rischio di avventure per la democrazia. Il Paese è maturo. Mi auguro - anche se sono scettico - che dalle elezioni venga fuori un governo con una maggioranza solida, appoggiato da forze politiche coerenti e coese, per portare avanti un programma per l'intera legislatura. E mi auguro che questo governo agganci l'Italia all'Europa. Senza una disciplina europea, senza raggiungere i parametri di Maastricht, avremo meno posti di lavoro e più disoccupazione. Ecco cos'è l'Europa e perché dobbiamo entrarci. Fuori, non si può stare: si va a fondo, nel Mediterraneo». Ezio Mauro «Le disfunzioni del nostro Paese sono un grave freno per lo sviluppo» Il manager racconta i momenti cruciali dei suoi 22 anni all'ottavo piano di corso Marconi «Per Gianni Agnelli provo molto affetto E' emozionante succedere ad un uomo così» «Se avremo successo il maggior merito sarà di Cantarella» «Mi auguro che dalle elezioni nasca un governo che regga 5 anni» ordine devo ricordare che sono arrivato in corso Marconi subito dopo la crisi del petrolio, con i piazzali pieni di automobili, la prima cassa integrazione, un disastro. Vuole sapere la verità? Nel '74 a fine anno la Fiat non aveva i soldi per pagare gli stipendi. Si rende conto? Organizzai un incontro a Milano con le banche, per spiegare la situazione e chiedere di darci una mano, e ci andai con il capo della Finanza Fiat di allora. Bene, per tutto il viaggio continuava a disperarsi: che vergogna, la Fiat che chiede soldi alle banche...». Altri momenti terribui? «La stagione del terrorismo, che a un certo punto sembrava non dovesse finire mai. Ho sempre pensato (e non l'ho mai detto) che chi non ha vissuto a Torino in quegli anni non sa cos'è stato davvero il terrorismo. Ricordo i funerali di Ghiglieno, la convinzione che potessero colpire chiunque e dovunque, quando volevano: quella chiesa con tutto lo Stato schierato nel lutto, fuori la città adirata e angosciata. Ricordo Carlo Casalegno, il vicedirettore della Stampa assassinato. E tutti i nostri uomini gambizzati: correvo in ospedale ogni volta, guardavo le loro facce, le trovavo comuni, "nor- notte. E' andata, mi dissi. Ma la vera svolta venne solo con il 1980, i 35 giorni, la marcia dei quarantamila». Perché? «Si chiuse un'epoca, finirono tante cose che erano durate troppo a lungo e avevano fatto troppi danni. Fu una svolta, che davvero fece "girare" il Paese, indirizzò lo stesso sindacato verso una strada moderna, europea, di confronto non per distruggere ma per costruire qualcosa. Riprendemmo il controllo della fabbrica, che era perduto. E per farlo rischiammo grosso, rischiammo tutto. E potevamo perdere tutto. Valentino Parlato, anni dopo, mi ha chiesto come facevo in quei giorni ad essere così sicuro di vincere, quando lui era convinto che ci sarebbe stata la vittoria del proletariato e il sovvertimento del sistema. Ti sbagli, gli ho risposto, io non ero affatto sicuro di farcela. Anzi, ero pieno di dubbi, e ogni sera andavo a dormire temendo che la mattina dopo saremmo stati sconfitti. Ma sapevo, molto semplicemente, che dovevamo andare avanti. Lo sapevo io e lo sapeva Malfa, che effettivamente poi ci at- riserve».. Enrico Cuccia In alto: Giovanni Agnelli con il nipote Giovanni Alberto Poi Romiti con il senatore Agnelli e Paolo Cantarella che prevede il licenziamento di ogni dipendente, anche se concusso, al semplice insorgere di un episodio di corruzione. Quei fatti sono alle nostre spalle». Lei ha parlato molto, fin qui, dell'Avvocato. Ma molti, oggi che lei è presidente, accostano la sua figura a quella del professor Valletta. Si riconosce in questo parellelo? «Il professor Valletta è stato per me un modello. Qualunque pai-agone sarebbe assolutamente inappropriato. Nei vent'anni in cui, dal '46 al '66, ha gestito l'azienda come presidente operativo, si è trovato nella necessità di accentrare al massimo le decisioni. La mia esperienza alla Fiat, in anni molto successivi, mi ha indotto invece a gestùe creando una squadra di diligenti cui delegare il più possibile le responsabilità». E oggi, che Fiat trova da presidente? «E' molto solida. Le grandi aziende di cui è proprietaria j analgedifast Enrico Cuccia In alto: Giovanni Agnelli con il nipote Giovanni Alberto Poi Romiti con il senatore Agnelli e Paolo Cantarella