JOVANKA il passato chiuso a chiave

Dalla Serbia all'Albania: così i nuovi governi democratici continuano a usare i vecchi metodi comunisti TORNEA Dalla Serbia all'Albania: così i nuovi governi democratici continuano a usare i vecchi metodi comunisti // passato chiuso a chiave ì ELLA primavera del 1994 sedevo in un ristorante di Ti¬ rana in compagnia di Ilir Hoxha, il primogenito del defunto dittatore comunista albanese Enver Hoxha. Quella sera, quando lo vidi per la prima volta nella hall dell'hotel Dajti, alto e vigoroso, mi sembrò l'immagine sputata di suo padre. Non ero certo l'unica a notare quella straordinaria somiglianza. Mentre passeggiavamo per strada la gente lo salutava, gli stringeva la mano, gli chiedeva come stava. «Come sto? - e agitava la mano, lamentandosi -. Il nuovo governo si è preso l'appartamento dove vivevo con la mia famiglia e ci ha mandato nel magazzino vuoto di una fabbrica in periferia. Né mia moglie né io abbiamo un lavoro e ci hanno pure ritirato i passaporti...». Era per questo che ci incontravamo: Ilir Hoxha voleva rendere pubblico il suo caso per attirare l'attenzione delle organizzazioni internazionali che si battono per i diritti umani. Sua madre, Nexhmia Hoxha, era stata processata e condannata al carcere, cosa che non era successa ai due figli né alla figlia. Non c'erano capi d'accusa contro di loro, eppure, senza una spiegazione, erano stati privati dei loro diritti di cittadini. Che paradosso, Ilir Hoxha che si appella alle organizzazioni per i diritti umani, pensavo mentre mi spiegava nei dettagli tutti i guai che gli erano capitati a partire dalla svolta democratica nel suo Paese. Proprio lui, figlio di uno dei più famigerati dittatori dell'Europa orientale, capace di spedirti in carcere anche solo per aver girato l'antenna della televisione verso l'Italia... Era fuori questione che Ilir Hoxha non sapesse dei lavori forzati, dei prigionieri politici e dei «nemici» della patria scomparsi senza lasciare traccia. Dopo tutto, erano finiti in prigione anche due suoi amici d'infanzia, con i quali giocava nel quartiere delle ville per la «nomenklatura» del partito comunista, i due figli del primo ministro Mehmet Shebu. Entrambi incarcerati dopo il presunto suicidio del padre, nel 1991. Eppure adesso Ilir ardiva appellarsi allo Stato di diritto per chiedere il rispetto delle sue pre- rogative di cittadino e di uomo. In effetti, come cittadino di un'Albania democratica, non accusato di alcun crimine, aveva tutti i diritti di farlo. Purtroppo per lui, inutilmente: ho poi sentito che non ha avuto il suo passaporto e che qualche mese più tardi è stato confinato agli arresti domiciliari perché si diceva avesse offeso il governo. In altri Paesi ex comunisti non ci sono stati scandali simili. Gli ultimi capi comunisti sono stati uccisi (come Nicolae e Elena Ceausescu) o sono morti (come Erich Honecker) o, se ancora vivono, conducono una vita tranquilla (come Todor Zhivkov). Lo stesso vale per i loro figli. Monika Jaruzelska lavora come giornalista per la rivista TVoi stil. Una nipote di Todor Zhivkov ha una boutique e, a suo stesso dire, mantiene se stessa e il nonno. Anche Nicu Ceausescu ha lasciato il carcere da tempo e ora è nel mondo degli affari. I nuovi governi democratici sanno benissimo che non possono usare i metodi comunisti; cioè, lo sanno dappertutto tranne che in Albania e in Serbia. Da quando Tito è morto la sua vedova, Jovanka Broz, vive in una villa a Dedinje, circondata da guardie del corpo. Esce in rare occasioni, e deve chiedere l'autorizzazione. L'abitazione non è di sua proprietà, ma non paga affit- to. D'altra parte, come potrebbe, visto che non ha neppure la pensione del marito? In altre parole, Jovanka Broz vive della «carità» della Serbia, che d'altra parte le viene imposta. Per esempio, non possiede documenti come una carta d'identità o un passaporto, in modo da poter lasciare il Paese. Dopo anni di questa vita, è riuscita a riavere il suo guardaroba e i suoi oggetti privati, che all'inizio le erano stati negati. Questo genere di «carità» statale di solito viene chiamato carcere o almeno arresti domiciliari. C'è però un piccolo dettaglio: Jovanka Broz non è stata condannata al carcere, non è mai neppure stata accusata di qualcosa. E' stata semplicemente privata dei suoi diritti di cittadina. «Nulla è cambiato per me negli ultimi quindici anni», ha detto in una recente intervista a un giornale straniero. E ha ragione, perché il governo in Serbia non è cambiato affatto. I comunisti presunti convertiti governano ancora il Paese e il suo caso - un esempio del tipico modo comunista di trattare il «nemico interno» - ne è una prova. In uno Stato di diritto sarebbe stata condannata al carcere o agli arresti domiciliari oppure godrebbe di tutti i diritti degli altri cittadini. Non solo: se si deve prestare fede alle voci di un suo antico complotto contro il Grande Dittatore Tito, nella Serbia di oggi dovrebbe essere onorata come una eroina. Il caso della vedova di Tito è il sintomo di qualcosa di totalmente differente: la paura di guardare in faccia il passato. Se il passato non viene trasformato in un mito che gli uomini al potere possono facilmente manipolare per i loro scopi, allora dev'essere dimenticato, distrutto, cancellato. Oppure arrestato. Ai testimoni non dev'essere concesso di parlare, perché potrebbe essere pericoloso. Jovanka Broz è un importante testimone storico, possiede certamente informazioni che potrebbero essere sgradevoli per chi è adesso al potere. Ma più probabilmente, a giudicare dalla situazione in altri Paesi ex comunisti, sarebbe troppo spaventata per parlare. Eppure gli uomini al potere preferiscono tenerla in isolamento e privarla di tutti i suoi diritti per impedire che eventualmente parli. Non ha figli che possano combattere per lei e le organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno troppo da fare nei Balcani. D'altra parte, l'immagine della Serbia nel mondo è già così negativa che il caso di Jovanka Broz ben difficilmente riuscirebbe a peggiorarla. Si potrebbe dire, in realtà, che tutti in Serbia stanno facendo il possibile per dimenticarla, come stanno facendo il possibile per dimenticare tutto il recente passato. Nei Balcani la storia sembra essere soltanto materia prima da riciclare, in modo da poter essere usata per produrre nuovi miti. La storia viene scritta e riscritta; e, negli ultimi dieci anni, proprio dalle stesse persone. Nei Balcani la storia è il nemico che dovrebbe essere affrontato in maniera radicale e sanguinaria, anche se significa la tua piccola vita, la tua piccola biografia, il tuo stesso passato. Si può anche capire che per gli uomini al potere questa sia una necessità, se vogliono mantenei si a galla. Ma i semplici cittadini che si comportano in questo modo hanno un rapporto infantile con il proprio passato, e si trasformano in facili oggetti di manipolazione da parte di chi ha il potere. Nei fatti non conta se il soggetto sia Tito o il re o Slobodan Milosevic. O magari anche Ante Pavelic, perché i croati stanno commettendo esattamente lo stesso errore. In ciascuno di noi è nascosta una qualche Jovanka Broz, un testimone indesiderato chiuso a chiave in una cellula buia della nostra coscienza. Slavenka Drakulic Le tristi storie della vedova di Tito e del figlio di Hoxha, testimoni indesiderati e senza diritti Tito (a sinistra) con Krusciov. Nella foto grande Jovanka A o e Sna) be, enole, tà» e le non una rto, aea, è dache stacarari. Joanepsa. utini. ede mtdcflzttbcdgrpreriuLedlbrstsunscdcsnpsd Sopra Slobodan Milosevic, nella foto in basso Enver Hoxha