Profumo di dc sotto l'Ulivo

m m®m Profumo di de sotto Pulivo Al via il duello silenzioso col Professore LA LEADERSHIP m m®m LROMA I', al terzo piano di palazzo Sforza, in quel salone costellato di affreschi e specchi che somiglia tanto a quelli di Palazzo Chigi, Bruno Tabacci, ex-proconsole demitiano in Lombardia ai tempi della grande de e ora probabile candidato nel partito di Dini, ritrova l'orgoglio di parlare di politica. «Finalmente - esclama, tirando un respiro profondo - ...per noi è stato un segnale, che si poteva tornare a fare politica. Per chi? Per tutti quelli che non si sono mai vergognati di essere stati democristiani. Non certo - aggiunge indicando con il capo - per quelli del ppi, come quell'infiltrato là, Roberto Pinza... quelli non fanno politica, fanno solo moralismo da quattro soldi. Noi siamo quelli che sono rimasti a guardare fino adesso, che sono stati delusi da un Silvio Berlusconi finito sotto le scarpe di Fini e adesso hanno capito che con Dini può rinascere un vero Centro. Intorno a lui si può ricreare il blocco sociale che ha governato l'Italia per quarant'anni. La leadership di Prodi? Ma Prodi sarà liquidato dal processo politico. Del resto De Mita 10 aveva già liquidato in agosto. La realtà è che al governo può andare solo chi interpreta il baricentro del Paese, non certo quello dell'Ulivo...». Poco più in là, Eugenio Bozzello, per anni senatore del Garofano, rilancia: «Dini ci farà rinascere. A Torino, sondaggio di ieri, già ci danno quattro seggi». Dentro quel salone dove capeggia 11 simbolo con il nome del movimento, «Lista Dini-Rinnovamento italiano», si respira davvero l'atmosfera delle riunioni de di un tempo, un'aria di «governo». Sotto, nel cortile del palazzo e davanti al portone, sono comparse di nuovo numerose le Thema grigie e le auto di scorta. Sopra, tra le scrivanie e i computer che debbono dare all'ambiente un'immagine moderna, girovagano volti noti di Palazzo Chigi: c'è il segretario generale della presidenza del Consiglio, Silvio Traversa; c'è Tivelli il «portavoce» di Guglielmo Negri e sottosegretari come Mario D'Urso; c'è un «anchorman» degli anni d'oro democristiani, quel Fulvio Damiani, che lunedì prossimo presenterà la biografia di Dini «Da Rospo a Re Leone» (non è uno scherzo) e probabilmente diventerà il «portavoce» del nuovo movimento; c'è Naccarato «portavoce» di Scotti nel grande centro doroteo, approdato in una stanza del palazzo del potere di piazza Colonna; e c'è anche l'ex-generale dei carabinieri che ogni pomeriggio fa il suo servizio giornalistico nella sala stampa del palazzo del governo. E già, questo è il partito del presidente del Consiglio, è il movimento che porta il nome del «premier» nello stemma, è un partito che - come una volta la de - prende la linfa dal governo e si confonde con esso. Questo è il gene dominante nel Dna del nuovo Centro, ne è il limite ma anche l'elemento trainante. Un dato è certo: se Dini non fosse stato presidente del Consiglio, il suo partito non sarebbe mai nato. Non ci sarebbero stati ministri da candidare, né sottosegretari da eleggere. E il fatto strano, è che tutto questo è stato messo in scena sull'onda di un governo definito per mesi «tecnico» e «superpartes». Ma se il passato è alle spalle, è anche vero che difficilmente questo movimento avrà un futuro, riuscirà nell'intento di «drenare» consenso e soggetti dal centro-destra per formare un grande Centro, se Dini non rimarrà a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni. Visto che nel dna di questo partito c'è il governo, per Dini la presidenza del Consiglio può diventare la condizione per la sopravvivenza. Ecco perché sull'argomento, sul dualismo con Prodi per la «premiership», il fondatore del movimento continua a tergiversare. L'altro giorno Lambertow si era li¬ Prodi è solo il «superfluo», non certo il predestinato alla guida del governo in caso di vittoria. Per quel posto Dini pensa solo a se stesso, altrimenti verrebbe meno tutto il suo «schema». Eh sì, come potrebbe Lambertow cementare un partito appena nato senza poter disporre del governo? Come potrebbe attirare schegge e segmenti del «centrodestra» che una sconfitta elettorale potrebbe rendere disponibili ad un cambio di campo, personaggi come Angelo Sanza che già oggi ammettono, «molti dei nostri sono di là»? Questa operazione Dini può tentarla solo dalla stanza dei bottoni. Non per nulla nelle riunioni con gli ùltimi il candidato è esplicito sull'argomento. E il concetto echeggia anche nei ragionamenti che gli «amici» fanno in pubblico. «Dini secondo di Prodi? Ma quello - esclama il "neo-sottosegretario", Ludovico Incisa di Camerana - vuole essere il primo. Basta vedere quanto è grande il suo nome nel logo del nuovo partito». «Sì, sì - conferma con tono sarcastico Enrico Boselli, che guida la schiera dei socialisti nel nuovo movimento - Dini rimarrà dietro a Prodi... come no...». «Ma non vi rendete conto - chiosa la Volpe, altro socialista alla corte del rospo diventato Re Leone - che quello ogni volta che apre bocca fa di tutto per dimostrare che il premier sarà lui?». E' fatale che questa sia la condizione di un partito che nasce su un governo. Per rimettere insieme e tenere uniti pezzi della vecchia de cioè aree della sinistra demitiana come Bruno Tabacci e quei personaggi dell'andreottismo che Sergio Berlinguer ha inquadrato nel suo Mid (da Bonsignore a Puja, dall'exsindaco di Roma Pietro Giubilo a Luigi Baruffi) - per dare una maggiore capacità di attrazione a quel segmento del vecchio psi che si è riunito intorno a Boselli e a Del Turco, Dini deve aspirare alla guida del governo. E' questa la condizione «sine qua non» per cui quel paradosso su cui Lambertow poggia il suo futuro possa diventare realtà: cioè, la possibilità di Rinnovare quello che appena due anni fa si era presentato come il «nuovo» e ha fallito, con quello che c'era prima... Augusto Minzolini Qui sotto: Fulvio Damiani A ds. Romano Prodi con Walter Veltroni mitato a pronunciare dei «vedremo», ieri, invece, si è rifugiato in un'espressione equivoca: «...purtroppo c'è un solo capo del governo alla volta». Mentre nel discorso di presentazione più simile, manco a dirlo, a quello di un «premier» che non a quello di un leader di partito, Dini non ha pronunciato neanche una volta il nome di Romano Prodi, cioè il nome del candidato alla presidenza del Consiglio dello schieramento alleato. Come avrebbe potuto? Per lui

Luoghi citati: Camerana, Italia, Lombardia, Roma, Torino