Milano, un'Expo nel cuore della crisi

19 Fra nebbie e frammenti, in mostra i vertiginosi progetti di 29 Paesi Milano, un'Expo nel cuore della crisi L'architettura «sadica» resuscita la città SMILANO BBIAMO la Triennale. Dopo 25 anni di fumate nere, di decadenza, di colpevole letargo e dopo l'incerta, precaria, affrettata fumata del 1992, una fumata bianca, per puntualità e vasta internazionalità (29 Paesi stranieri presenti) annuncia il debutto dell'Expo che, ogni triennio e su un tema unificante, deve portare alla ribalta i problemi, le esperienze, le realtà dell'architettura, dell'urbanistica e del «design». L'evento è già di per sé confortante. Un esempio focale della crisi milanese viene ribaltato e diventa esempio di rinascita, di ripresa, uno dei pochi possibili nell'attuale panorama della città. La controtendenza è iniziata nel '94, da quando, come vuole il suo nuovo statuto, l'istituzione Triennale, aprendosi anche alla moda e alla comunicazione audiovisiva, ha svolto un'attività permanente, «quasi quotidiana» dice il presidente Pierantonino Berte: 40 mostre, 100 fra convegni, seminari e incontri. Lazzaro è risorto ed era già decomposto. Orgogliosamente, Milano rilancia una sua creatura e, attraverso gli interventi di Stefano Boeri, Cino Zucchi e Pietro Derossi, curatore della mostra, la collega più saldamente alla città con una sorta di cordone ombelicale: una serie di alti totem segna il percorso da piazza Cadorna al palazzo di Muzio e una piazza, ricavata nella breve collina di fronte, rende meno asfittico l'ingresso e funziona da ribalta. C'è dunque materia per esultare, anche se un forte senso di smarrimento, quasi una vertigine da fatica di decrittare quel che è esposto, accompagnerà il visitatore della XLX Triennale che non sia addetto ai lavori, alle utopie, agli avvitamenti dell'architettura, dell'urbanistica. Al cronista è capitato, nel percorso che svolge il tema «Identità e Sopre Pie Differenze». Eppure, era animato da quella buona volontà di «entrare nella complessità», che Derossi aveva sollecitato nel suo discorso al battesimo della mostra. Quell'esortazione già segnalava un dubbio. Lo stesso dubbio che, con abbondanti sfumature polemiche, è stato proclamato in un'intervista dal direttore generale della Trien¬ nale Saverio Monno: «Temo proprio che sia una mostra per pochi. Il rischio è di trovarsi sprovvisti di elementi di comprensione». Il binario dell esposizione è fortemente concettuale e va dritto al cuore della crisi in cui da tempo annaspa l'architettura che, dice Derossi, «si è chiusa in un mondo autoreferenziale, si è arroccata dentro il proprio discorso, allontanandosi dai problemi reali della città, dell'abitare, dalla gente». Oggi, interpretare la realtà significa mettere a fuoco e rispettare le differenze. Per anni, architettura e urbanistica hanno inseguito il mito della pianificazione globale, dell'idea unitaria. «Ma la realtà è stata più forte del piano, ha trasformato la città al di là delle linee programmatiche, ha prodotto e imposto differenze, diversità. Se manca un quadro unitario, l'architettura può conoscere, può parlare, può integrarsi solo per differenze. L'importante è che questo itinerario nelle diversità, tema attualissimo anche al di là del progettare, inneschi un dibattito». Gli intenti sono alti. Ma, più che portare in primo piano e «leggere» le differenze se non quelle plateau di un confronto fra le identità architettoniche dell'Occidente, del Terzo Mondo e dei Paesi ex comunisti, il percorso, per la confusione in cui scaraventa il visitatore, documenta e narra soprattutto la cri- si del fare architettura. Lo smarrimento è subitaneo. Comincia dalla mostra introduttiva, quella che affida il tambureggiamento sul tema a Jean Nouvel, Peter Eisenman, Juan Navarro Baldeweg e al duo Craig Hodgetts e Ming Fung, «quattro grandi architetti che rappresentano poetiche e tendenze diversissime fra loro». A ognuno, e qui si avverte un certo sadismo verso il visitatore, è stato chiesto «un allestimento che, in termini metaforici, delincasse la sua proposta di architettura nel rapporto con la città». L'invito alla metafora ha istigato i quattro a un forsennato ermetismo. Per rendere «più esplicita la metaforicità», i quattro sono stati abbinati ad altrettanti scrittori che hanno tradotto in linguaggio letterario l'intenzione dei progettisti. Il risultato non è divulgativo. Nel mezzo di queste provocatorie suggestioni, si apre uno spazio di confronto: Amsterdam, Barcellona e Milano come contraltare della radicalità, dell'utopia del quartetto introduttivo. E' più tradizionale, più fisiologicamente in tema la parata dei Paesi stranieri, con alla testa la «differenza» dell'Est, della Cina. Ma subito si ripiomba nelle nebbie del Padiglione Italia che, attraverso i ((frammenti d'architettura» di Battisti, Burelli, Celimi, Collovà, Natalini, La Pietra e Monistiroli, dovrebbe testimoniare il modo di «trovare una comunicazione con la città». Ma i «frammenti» rendono la testimonianza appunto frammentaria. La vertigine da decrittazione passa nelle sale che ospitano alcune mostre di arricchimento: quelle dedicate a Vittoriano Vigano, all'egiziano Hassan Fathy e quella sul «design» italiano dal '63 al '72 che accumula materiali per un museo permanente. Quattro convegni cadenzeranno i giorni dell'Expo che chiuderà il 10 maggio. Uno di questi è particolarmente necessario. Si intitola «Come si fa una mostra di architettura». Forse, la materia e l'imbozzolarsi di questa disciplina in se stessa non permettono di farla che così, per addetti. Guido Vergani da sinistra, il simbolo della mostra o Derossi, responsabile scientifico ingrandita dell'elemento transitorio tra gii allestimenti Convegni e seminari per riflettere il caos delle nostre metropoli Convegni e seminari per riflettere il caos delle nostre metropoli Sopra, da sinistra, il simbolo della mostra e Pietro Derossi, responsabile scientifico Hermann Czech: versione ingrandita dell'elemento transitorio tra gii allestimenti

Luoghi citati: Cina, Italia, Milano