BERLINO Terra promessa degli ebrei

LA STAMPA Da quando è caduto il Muro, la capitale tedesca è diventata la seconda meta d'emigrazione dopo Israele BERLINO Terra promessa degli ebrei BERLINO DAL NOSTRO INVIATO Sembra un asilo come gli altri, nei corridoi e alle pareti disegni di alberi e di gnomi, un cielo colorato, e fogli di carta per informare che Mira è a casa con la tosse e che Mazal non verrà perché ha il morbillo. Ma il venerdì mattina, all'asilo nido della Delbriickstrasse arrivano una «Shabbat - Marna» e uno «Shabbat - Papa». Due genitori per celebrare lo Shabbat, il sabato, con succo di mirtilli invece del vino e con la «Challa»: il pane che spruzzano di sale, prima di spezzarlo, per ricordare il pianto degli ebrei schiavi del Faraone. Succede ogni settimana, succede tutti i venerdì: per i bambini della Delbriickstrasse la festa del sabato anticipata al venerdì è «un rituale fisso», come spiega Hannelore ReubenShemia, la maestra. «Perché imparino a conoscerla in tutti i suoi significati, perché imparino ad amarla». Da quando Berlino è tornata unita, sei anni fa, l'asilo della Delbriickstrasse non è più l'eccezione, in una città dove negli Anni Trenta viveva una comunità di 173 mila ebrei (costretti all'emigrazione, novantamila, o massacrati dal nazismo, 53 mila) ridotta a cinquemila persone nel '46 e che nel 1989 si era di poco rafforzata, seimila persone all'Ovest e 209 all'Est. Da quando il Muro non c'è più, Berlino è tornata la capitale tedesca degli ebrei, la seconda meta d'emigrazione dopo Israele per la «diaspora orientale», per chi arriva dalla Polonia, dall'Ucraina o dalla Russia inseguito dall'ombra lunga e fosca dell'antisemitismo. Da quando le frontiere dell'Est si sono aperte, «Berlino è diventata per tutti loro una calamita, il magnete, un centro d'attrazione come nessun altro in Europa», spiegano al «Centrum Giudaicum» della nuova sinagoga sulla Oranienburgerstrasse, all'Est: un tempio fra i più belh di Berlino, riaperto l'anno scorso dopo un restauro durato sette anni e dopo il lunghissimo silenzio imposto, nel dopoguerra, dal regime comunista di Walter Ulbricht e Erich Honecker. Oggi il loro numero è più che raddoppiato, oggi gli ebrei a Berlino sono fra dodicimila e quindicimila almeno. Più della metà vivono all'Est, nei quartieri intorno alla sinagoga risanata, in quello che negli Anni Venti era una leggenda: lo «Scheunenviertel» abitato soprattutto da emigrati orientali, da un sottoproletariato poi decimato dalla povertà e dal nazismo. Oggi una comunità che pareva destinata all'estinzione - ancora, ma per ragioni d'anagrafe, per l'età avanzata dei componenti, questa volta - è alimentata da un'emigrazione all'interno della quale abbondano i giovani, le famiglie numerose, i bambini. Oggi nei locali del centro più elegante e in quelli più dimessi, all'Est, capita di nuovo di veder ballare la «Horra», la danza popolare in onore degli sposi, e di ascoltare il grido cadenzato di «Masel tow», tanta felicità alla nuova coppia. Una tradizione antica ma una «assoluta rarità» negli anni della Ddr: quando un rabbino arrivato dall'America - dopo una lunga interruzione dei servizi religiosi in pubblico - resistette pochi mesi appena, prima che le difficoltà create dal regime lo costringessero a partire. Oggi, le feste ebraiche non sono più l'eccezione e nemmeno la singolarità che impone l'attenzione, nella città dove venne pianificato l'Olocausto: a qualunque ebreo chieda ospitalità, il governo federale garantisce un visto senza scadenza e aiuti sociali per mille e ottocento marchi al mese, due milioni di lire pressappoco. Oggi a Berlino è possibile andare al ristorante per gustare la cucina «kasher»: all'«Oren» per esempio, un locale che evoca nel nome ebraico un albero simile al pino e garantisce «specialità israelianoorientali». 0 al «Beth-Café», anche questo all'Est, rinomato per le carpe ripiene di battuto al rafano e per un menu che promette «piatti preparati con la supervisione del personale della sinagoga di Berlino». All'«HofTheater», oggi, l'ucraino Mark Aizikowitsch cerca il successo con un repertorio musicale e teatrale yiddish; e all'«Hackeschen Markt» fa fortuna Iossif Gofenberg, un musicista arrivato dall'Ucraina pochi giorni dopo la riunificazione, e da allora impegnato in «rappresentazioni ebraiche» a cura della comunità, canzoni e marionette. Oggi i club aperti da ebrei immigrati nell'immediato dopo-Muro si riconoscono a fatica dalle centinaia di locali avviati nel frattempo a Mitte, il cuore di Berlino Est attorno all'Alexanderplatz: e al «Centro culturale ebraico», preoccupato soprattutto di «garantire un varco nella società tedesca» agli ultimi arrivati, è possibile incontrare fra la folla delle feste più importanti perfino una leggenda del passato comunista di Berlino. Quel Markus Wolf che diresse 10 spionaggio del regime e che, secondo le definizioni classiche, non è ebreo perché soltanto suo padre, e non sua madre, lo era. Ma se è vero che «le cinque sinagoghe di Berlino sono più frequentate di una volta», e che «la vita culturale ebraica riprende a fiorire da quando non c'è più 11 Muro» - come ricorda il capo della comunità locale, Jerzy Kanal - l'afflusso dall'Est non è indolore. I «vecchi», uomini e donne tornati in città nell'immediato dopoguerra, guardano con diffidenza a persone che parlano soltanto il russo, che sono estranee alla Tradizione, che «non festeggiano il sabato e non pregano», che solo di rado van¬ no in sinagoga e che non conoscono la «Challa». Come ammette il rabbino Ernst Stein, «il novanta per cento di loro non ha idea di che cosa sia l'ebraismo, dopo aver vissuto a lungo in un regime nel quale era vietato affermare la propria religione». Per questo i «nuovi ebrei di Berlino» - molti fra loro, almeno - restano ai margini di una collettività che, pure, potrebbe essere profondamente influenzata dal loro arrivo: in scala ridotta è già accaduto a Hannover, dove grazie alla forza dei numeri «i russi» hanno conquistato la guida della comunità. Perfino qualche funzionario del «Centro ebraico», sulla Oranienburgerstrasse, confessa un disagio radicato, condiviso, alimentato da difficoltà quotidiane e diffidenze: «Gli emigranti russi arrivano, quasi sempre, soltanto per trovare da noi un aiuto, perché vogliono una casa, perché cercano un lavoro. I più giovani so- prattutto non si mescolano mai a noi, non vengono da noi se non per domandare». Come se il destino della Berlino ebraica adesso che il Muro non c'è più e che il peso tremendo del passato comincia ad alleviarsi, nelle generazioni nate nel secondo dopoguerra - restasse sospeso su una maledizione antica. Lo riconoscono anche alla Comunità: «Lentamente, molto lentamente, cerchiamo di rimetterci in piedi. Ma non sarà mai più quel che è stato una volta: perché manca l'elemento principale, perché mancano gli uomini». E' il paradosso della nuova emigrazione in una città che, fino all'avvento del nazismo, era un centro fiorente di cultura e di vita ebraica. E' il paradosso di un Paese rimasto di confine anche adesso che il Muro non c'è più: affidarsi alla memoria per dar significato al mutamento, alla contraddizione che rende diffìcile comprendere il presente. Adesso che sulT Oranienburgerstrasse la sinagoga è tornata a far da calamita, con la sua cupola dorata, fra i «vecchi» c'è chi ricorda l'ultimo concerto, il 29 gennaio del 1930: quando fra i suonatori - nel tempio illuminato a luce fioca - c'era anche Albert Einstein, che insieme a un medico suo amico eseguì musiche di Haendel e di Bach. Adesso che almeno i numeri suggeriscono speranza, in una comunità fra le più provate negli anni del terrore, c'è chi non riesce a dimenticare com'era «prima», la vita degli ebrei a Berlino; chi non sa cancellare un'impressione dominante: che le strade intorno allo «Scheunenviertel» siano un museo, una porta aperta soltanto sul passato. Basta affidarsi alla memoria di chi in quelle strade ha vissuto «prima», basta interrogare la gente all'uscita dalla sinagoga: per molti, fra i «vecchi ebrei» berlinesi, la casa rivestita di mattonelle blu al numero 18 della Rosenthalerstrasse è rimasta «quella del massacro della famiglia dei gemelli». Per molti, la casa al numero 14 dell'Auguststrasse è rimasta la «Ahawah», l'ospizio per bambini abbandonati trasformato in un luogo di sterminio. Per molti, lo «Scheunenviertel» esiste ancora: con le bancarelle di una volta, con la confusione di una volta, con i carri e i cavalli dei mercanti allineati, una fila davanti all'altra. Per i «vecchi», quel che sta accadendo nella comunità è un'illusione, una speranza vana, un inganno: «Gli ebrei a Berlino non torneranno», rispondono a chi gli mostra le cifre della nuova emigrazione. Emanuele Novazio La città maledetta, dovefu pianificato l'Olocausto, è un 'irresistibile calamita per la diaspora orientale: la comunità che sembrava destinata all'estinzione è raddoppiata negli ultimi anni; all'ombra della nuova sinagoga, rifioriscono feste, cultura, ristoranti kasher Un ragazzo pulisce un marciapiede dopo la «Notte dei cristalli»; a sinistra la sinagoga di Berlino suirOranienburgerstrasse in preda alle fiamme e dopo la ricostruzione. Sotto, Albert Einstein che suonò il violino nell'ultimo concerto tenuto nel tempio berlinese il 29 gennaio del 1930