UN VIETNAM PALESTINESE di Igor Man

«Un patto tra Dini e PAtenta? DALLA PRIMA PAGINA UN VIETNAM PALESTINESE tanyahu sarebbero verosimilmente costretti a congelare il processo di pace. Ma se ciò avvenisse i palestinesi reagirebbero, scoppierebbe una nuova Intifada. Che comporterebbe una repressione più dura, se possibile, che in passato, il risultato finale sarebbe un nuovo Vietnam. Nel cuore della Palestina, nel cuore antico del mondo. Un Vietnam che potrebbe, alla lunga, sfociare nella quinta guerra mediorientale. L'ottimismo della ragione ci dice che una volta ancora quel Paese forte e, in definitiva, saggio ch'è Israele metabolizzerà anche questa tremenda disgrazia. Sì: perdere tanti compatrioti è una grande disgrazia in un Paese come Israele dove ogni morto, ogni caduto ha nome, cognome e indirizzo. Coloro che ragionano, in Israele, non sono pochi: essi sanno che quella per la pace non è solo una prova esistenziale ma altresì una guerra. Una guerra atipica che, però, ha le sue vittime, perlopiù innocenti, al pari d'ogni (lurida) guerra convenzionale. Essi sanno che questa enne sima strage non sarà purtroppo l'ultima. Ma Israele non si lascia intimorire dal terrori smo. Attivo e passivo. Perché lo conosce. Da sempre. Il terrò rismo dei fidaìin (dedicati), va riante di assassini (quelli del Grande Vecchio della Monta gna), il terrorismo degli zelotisikari, una setta ebraica attiva nel Primo Secolo. Abraham Stero, detto Yair, uno dei capi storici, con Wladimir E. Jabotinsky, dell'Irgun Zvai Leumi, in una sua bellissima poesia cantò Gerusalemme «città di profeti e di biryonim: ir ne vi'im vebiryonim». A motivare Jabotinsky era la Bibbia che indicava i confini storici di Eretz Israel, quel Grande Israele sognato da Be gin, al quale né Shamir né i suoi epigoni mostrano di aver rinunciato. A motivare i giovani kamikaze di Hamas, della Jihad è una lettura distorta del Corano che li costringe a odiare Israele, a rifiutarlo come vicino politico ma altresì come «realtà antropologica». Tutto ciò è noto un po' a tutti; la leadership israeliana conosce bene storia e motivazioni di Hamas. E sa anche che il terrorismo, arma viscida, fa male e tuttavia non è mai risultato determinante. Quando assassinarono Rabin, lo Shin Beth fu colto di sorpresa perché pensava a un attentato islamico. Questa volta pensava, forse, a un attentato di matrice ebraico-fondamentalista? Eppure Hamas aveva giurato di vendicare l'ingegnere», il giovane Yihia Ayash ucciso dai Servizi israeliani proprio 50 giorni fa. E proprio ieri cadeva il secondo anniversario della strage di Hebron, quando lo zelota dottor Baruch (Benedetto) Goldstein fece strame col suo Uzi di decine di palestinesi in preghiera. Un attentato kamikaze è difficile da prevenire ma poiché comporta comunque un minimo di organizzazione, con un po' di impegno e molta fortuna, a volte, è possibile scongiurarlo. Impresa in cui la scalcagnata polizia di Arafat è riuscita (e non una volta sola) negli ultimi sei mesi. Chiudere i territori, sospendere il negoziato (sia pure per breve tempo) sono soltanto palliativi di routine. Rendiamo onore ai morti in nocenti nella consapevolezza che essi aprono la strada alla resurrezione della pace. Ep però affinché questa si compia bisognerà accelerare i tempi del negoziato. Ogni giorno impiegato nel girone della politica interna, è un giorno perduto per la pace. L'occhio per occhio acceca Quella di Feres (e di Arafat) è oramai una dura scommessa Non soltanto con la Storia ma altresì con la Vita. La loro. Aiutiamoli: noi Europa, noi Italia Senza proclami, coi fatti. Facciamo nostra la loro scommessa. Igor Man