Il bus, una scultura di morte e sangue di Fiamma Nirenstein

Peres sospende le trattative ma annuncia: «Dopo il lutto il negoziato riprenderà» Peres sospende le trattative ma annuncia: «Dopo il lutto il negoziato riprenderà» Il bus, una scultura di morte e sangue DALLA PRIMA PAGINA LGERUSALEMME E cinque strade che convergono sull'epicentro della tragedia giungono da dentro il cuore del centro storico; dai quartieri religiosi (a un passo si trova Mea Sharim, la zona degli ultrareligiosi); dai Territori occupati, da Ramallah che è la capitale della forza palestinese nella West Bank; dall'autostrada Tel Aviv-Gerusalemme, che è l'unico collegamento della capitale con il resto del Paese. E per arrivarci si passa davanti a Binianei Huma, il centro dei congressi, e davanti al ministero degli Esteri. Alle sette meno venti, proprio sotto la «Jcs», la sede della televisione, un palazzone moderno dove si trovano tutti gli studi tv, dal secondo canale israeliano alla Cnn, lo scoppio. Uno scoppio immane, dentro il cuore della città vecchia e nuova, religiosa e laica, araba e israeliana. Lo scoppio forse più violento che si sia mai sentito in Israele, dei tanti attentati che Hamas ha messo a segno negli autobus pieni di cittadini che vanno al lavoro o a scuola nelle prime ore del mattino. Brandelli di essere umano sono volati fino alle fine¬ stre del quarto piano. Fino sulle cime degli alberi. Dell'autobus, che è stato tagliato a metà in orizzontale, non resta praticamente nulla. La sua forma, lo vede stupefatto chiunque giunga nella zona, non è più quella di un veicolo. E' una scultura d'acciaio in onore della morte, sita a lato'della via; dentro non restano feriti, né cadaveri. Dentro non resta più nulla, solo macchie di colore nero e rosso. I morti sono disintegrati. I feriti sono i passanti o i passeggeri delle automobili che si trovavano vicini al numero 18 al momento dell'esplosione. Corrono in aiuto i religiosi dai quartieri vicini. La televisione, la polizia, le ambulanze, tutto è in centro, a un passo; in un attimo le sirene urlano tutte insieme. Stavolta il lavoro della compagnia di volontari con i riccioli laterali, i guanti di plastica, e un sacco in mano, è più lungo e più minuzioso del solito. Arrivando da Tel Aviv, una volta superato il blocco del traffico (che però, secondo l'ossessione israeliana del ripristino immediato della vita normale, viene tolto a tempo di record), si vede per primo un uomo dalla lunga barba appollaiato in cima a un albero. Con due dita raccoglie qualcosa di piccolo e di rosso; e ancora qualcosa. Per terra, sul selciato che i pellegrini di tutto il mondo toccano con gioia quando arrivano alla Città Santa alle tre religioni monoteiste, una scarpa da tennis di misura piccola, libri, quaderni, borse di soldati e di scolari. Macchie di sangue, altri reperti umani. La popolazione di Gerusalemme di nuovo si sveglia all'incubo, dopo aver sognato la pace. Soldati, volontari di ogni genere, religiosi nerovestiti, arrivano in aiuto di corsa. Si innalza disperato il pianto del popolo gerosolimitano. Le famiglie cominciano ad arrivare. Sbimon Peres, che sopraggiunge sul luogo dell'attentato, viene accolto da qualche grido di protesta, ma è poca cosa in confronto alle urla di dolore. Stavolta, anche se siamo in piena campagna elettorale, l'odio politico non prende il sopravvento. Persino il capo dell'opposizione, Beniamino Netanyahu, invita a non usare l'attentato come arma politica. Gli uomini della polizia si spostano passo passo di concerto con i gruppetti dell'oppo- sizione che gridano oltre le transenne la loro domanda di sempre: dov'è la pace, ma quale pace? Ad Ashkelon, alle sette e trentacinque, un gruppo di soldati che nel fine settimana ha visitato la famiglia è alla fermata dell'autobus in un paesaggio altrettanto israeliano quanto quello della montagna di Gerusalemme, ma completamente diverso. E' il caldo, laico paesaggio industriale della costa, ornato di palme e di grattacieli. Le navi da carico dal porto poco lontano lanciano segnali; il muggito del traffico dell'autostrada che taglia il Paese da Nord a Sud è interrotto dall'esplosione. Un terrorista si fa saltare per aria in mezzo alla folla dei giovani che chiedono un passaggio. Una ragazza muore sul colpo. Un uomo viene scaraventato di testa nel vetro posteriore di una macchina. Un passante indicandone i brandelli esclama: ecco la sua carne, la carne di un ebreo. Ashkelon e Gerusalemme sono così diverse, l'una in pieno sviluppo, tutta nuova lungo il Mar Mediterraneo, costruita di grandi edifici abitati da lavoratori per la massima parte di origine sefardita. Sono le undici e mezzo quando già un carro-attrezzi sposta, con l'aiuto di una grande gru, la carcassa dell'autobus numero 18. Il 18 è un autobus popolare quant'altri mai, che taglia tutta la città da Est a Ovest arrivando da un quartiere popolare fino al Museo dell'Olocausto Yad Va Shem e alla tomba di Rabin sul monte Herzl, ma soprattutto attraversando la zona dello Sbuch, il mercato di frutta e di carne. Più tardi nella mattina quell'autobus sarebbe stato pieno di vecchietti ashkenaziti che escono di casa in pantofole per andare a spendere i pochi sheqel che hanno in tasca proprio a quel mercato. Ora però, di mattina presto, era tutto pieno di ragazzi, studenti e soldati. I loro nomi vengono comunicati al pubblico solo molto tardi di sera. Israele non rivela mai il numero dei morti fino a che tutte le famiglie non siano avvertite. Le regole del lutto sono qui molto precise e determinate. Ma sin dalla mattina si dice, e purtroppo poi risulta vero, che uno dei giornalisti più famosi d'Israele, Nahum Barnea, la colonna politica del primo quotidiano d'Israele «Yediot Aharonot», che era stato mandato di corsa a «coprire» lo scoppio, vi ha perso il figlio Ionatan, di vent'anni. Ancora una volta la maledizione della morte dei giovani pesa sul Paese. Come in guerra, sono tutti fra i sedici e i vent'anni i morti di cui l'annunciatore tv, soffocando il pianto, rivela i nomi. L'autobus viene rimosso, il traffico ripristinato rapidamente. A ripassare sul selciato sono per primi proprio gli autobus di linea, pieni come sempre. Il mercato ricomincia a funzionare. Da Tel Aviv arrivano i soliti pendolari. Per quanto sia crudele, gli uomini dei soccorsi vanno a rifocillarsi nei piccoli ristoranti del mercato. Se qualche cameriere è palestinese, nessuno ci fa caso. La vita prende il sopravvento. Shimon Peres è solo per ìa prima volta davanti al Paese che gh chiede: che razza di pace è mai questa?, e con voce quieta incontra i giornalisti nell'ufficio del primo ministro. «Continuiamo - ripete come quando Rabin era vivo - sulla via della pace». Peres ieri ha subito risposto positivamente all'ansiosa domanda del mondo intero, quella sul processo di pace. Prima aveva cercato rassicurazione nelle telefonate con Arafat e nei messaggi solidali di re Hussein di Giordania e di Mubarak. Ma già, pure in un tono che il dolore acquieta, si levano legittime le domande sulla volontà e sulla capacità di Arafat di aiutare la pace sconfiggendo Hamas una volta per tutte. Gh attentati che hanno segnato ranniversario della strage di Hebron e l'eliminazione di Yihia Ayash, l'Ingegnere, erano stati più volte annunciati. Già, Muhamed Adif, prima numero due della lotta armata, e ora il suo capo, aveva promesso la strage. Giovedì scorso una grande manifestazione palestinese aveva, con macabro tempismo, prefigurato in effigie e con grida di tripudio di una grande folla l'esplosione di un autobus seguita da un corteo di «martiri» biancovestiti. Gh israeliani ora si chiedono e chiedono a Peres come mai Arafat, il partner della pace, il leader pragmatico che sa persino accettare (come si vede dai piani segreti appena venuti alla luce) che i coloni conservino anche nell'assetto definitivo i loro insediamenti, consenta ai giovani palestinesi di mantenere un doppio registro ideologico; permetta che conservino come modello i terroristi suicidi di Hamas; si limiti a modeste azioni di polizia contro l'organizzazione che pure gh è nemica mortale, non le infligga un colpo definitivo. Fiamma Nirenstein