L'Occidente ha scelto Boris

I/Occidente ha scelto Boris I/Occidente ha scelto Boris un 1 ANALISI LA SCOMMESSA DELLE DIPLOMAZIE 'goiononckns ai; .nofnato' E MOSCA COSI' l'Occidente ha deciso/di appoggiare Boris Eltsin nel suo tentativo di ottenere una rielezione il prossimo giugno. Più indiretta e prudente la posizione americana, anche se Bill Clinton - avendo messo tutte le uova nel paniere di Eltsin - non può cambiare cavallo in piena campagna elettorale americana. Altrettanto e addirittura esplicitamente ha fatto il cancelliere tedesco Helmut Kohl con la sua visita ufficiale a Mosca. Non è un segreto che la recente ammissione della Russia nel Consiglio d'Europa è stata decisione fortemente caldeggiata dal cancelliere. La visita di Susanna Agnelli nella sua doppia veste di presidente di turno dei ministri degli Esteri dell'Unione Europea e di ministro italiano ha confermato, nei toni e nelle sottolineature, un identico orientamento. Dietro i due «calibri da 90» l'Europa segue sulla stessa linea. Che si articola su due piani: da uh lato diluendo per quanto possibile tutti gli elementi del contenzioso, dall'altro intensificando l'aiuto finanziario al Cremlino. Mosca entra nel Consiglio d'Europa mentre le bombe russe si abbattono sul villaggio di Pervomaiskoe, mentre il presidente russo licenzia il direttore della seconda catena televisiva di Stato (per altro suo convinto sostenitore) accusandolo di non condurre un'adeguata propaganda per il potere. Il cancelliere tedesco mette la sordina alla questione dell'allargamento della Nato; invita Eltsin come partner a pieno titolo nella futura riunione estiva del G-7 (che diventerà dunque G-8); promette che il vertice di Berlino della Nato, all'inizio di giugno, sarà dedicato a «questioni interne» e eviterà qualsiasi accenno alla sua espansione. L'Italia, dal canto suo, sblocca la linea di credito bloccata dal 1992. E' chiaro che, per quanto concerne l'allargamento della Nato, si tratta di una sospensione temporanea del problema, per tranquillizzare, fino a giugno, un'opinione pubblica russa apertamente ostile. Ma l'attivismo di Kohl va perfino oltre gl'intenti di Washington, dove si vorrebbe salvare capra e cavoli, per evitare che Clinton possa ritrovarsi con il fianco scoperto di fronte a un possibile attacco repubblicano. In altri termini: evitare un confronto polemico con i russi, ma senza dare l'impressione di «abbandonare» i Paesi dell'Europa Centrale e senza mostrare debolezza di fronte ai veti del Cremlino. Sul lato dell'aiuto finanziario, il Fondo monetario internazionale ha sbloccato il nuovo prestito da 9 miliardi di dollari. Da una parte e dall'altra dell'oceano ci si rende conto che ben poco tutti questi gesti potranno influire sull'esito elettorale in Russia. La diplomazia è cosa per pochi e l'incremento dell'aiuto economico - anche se andasse a destinazione, e cioè non venisse dilapidato com'è avvenuto in questi anni - difficilmente sarà percepito dalla popolazione russa in tempo utile. Per giunta ogni appoggio troppo esplicito dell'Occidente a Eltsin rischia gravemente di nuocergli, tanto il feeling antioccidentale è ormai esteso nella stragrande maggioranza dell'opinione pubblica. Tanto maggiori saranno gli elogi di Washington e Bonn, tanto più forti gli argomenti degli oppositori di Eltsin, che lo accusano di avere svenduto gl'interessi nazionali della Russia. La partita si annuncia dunque difficile, se non disperata. Al punto che sorge legittima la questione se è questo il modo in cui andava giocata e se non sarebbe utile, finché c'è tempo - e prima che altre spiacevoli sorprese non vengano a turbare il quadro -, cambiare registro. Corre a Mosca una barzelletta istruttiva che suona così: i russi sanno già che il prossimo presidente sarà un comunista. L'unica cosa che non sanno è se si chiamerà Ziuganov, o El¬ tsin, o Zhirinovskij, o Javlinskij. Il quadro è questo, poiché la saggezza popolare ha già capito che, chiunque vinca, sarà costretto a fare una serie di cose che - piaccia o non piaccia all'Occidente - correggeranno sostanzialmente la linea di passaggio al mercato seguita da Eltsin. Eltsin compreso. Poiché - come scriveva recentemente Jerry Hough sul Washington Post - «gli economisti che dominano la politica occidentale (...) devono riconoscere che i loro consigli non hanno funzionato. L'Occidente ha esercitato pressioni per una riforma basata sulla pura ideologia, in quasi totale disprezzo per le condizioni locali», la «riforma» economica patrocinata da questi economisti (e governi) «è stata tale da far apparire, al confronto, Margaret Thatcher come una socialista». Siamo arrivati al punto che perfi¬ no uno di questi economisti, che fu consulente primario del governo russo ai tempi di Egor Gaidar, Anders Aslund, ha ammesso sul New York Times di «non aver trovato a Mosca nessuno, fuori dal governo, che oggi voterebbe per Eltsin». L'Occidente si nasconde ormai dietro parole - come, appunto, «riforma» - che non hanno più alcun significato concreto. E, per difendere simulacri vuoti, spende senza sag- gezza non solo i propri denari, ma anche i propri principi. Se è spiegabile in termini di «Realpolitik», non 10 è in termini etici: E neppure i potenti del mondo possono fare a meno di principi. Ed è lecito ormai chiedersi se sia questa una «Realpolitik» oppure una miope confusione tra interessi elettorali immediati, vantaggi economici e geopolitici di breve termine, desiderio e speranza di chiudere 11 più in fretta possibile, e a qualsiasi costo, la questione della «minaccia» russa. Il problema della Russia - scrive Thomas Friedman sul New York Times - è non solo che la riforma è stata dolorosa ma che, con Eltsin, è stata corrotta. E quanto più si è rubato al vertice, tanto più dolorosa è stata per la maggioranza in basso. Eltsin ha permesso che i clan del business facessero man bassa del gas, del petrolio, delle risorse minerarie. E questa ricchezza è servita per arricchire individui piuttosto che proteggere una società in transizione. Ecco perché la parola riforma ha una così cattiva fama in Russia al giorno d'oggi». Che altro aggiungere? Solo che Eltsin promette ora di pagare i salari non pagati, «entro giugno», di indicizzare i depositi bancari contro l'inflazione, di indennizzare i risparmiatori truffati dalle piramidi di Sant'Antonio e i milioni di russi che hanno perso tutti i loro risparmi nel 1992. Solo per restituire i 20 trilioni di rubli di salari e pensioni non pagati occorrono 6 miliardi di dollari, che non si sa da dove verranno fuori, salvo che li si stampi (o che si usino le riserve valutarie, o che vengano dall'esterno). Altri 4,5 miliardi serviranno per ricostruire la Cecenia. Il resto nessuno è in grado di calcolarlo, ma sono almeno altri dieci miliardi di dollari. Se Eltsin mantiene anche solo in parte la parola data agli elettori, a giugno anche l'unico risultato realizzato quest'anno - il contenimento dell'inflazione - sarà annullato. Il ministro degli Interni Kulikov, «dottore in scienze economiche», propone di nazionalizzare banche e imprese di Stato. Riferiscono che questo «non esprime» le intenzioni del governo, ma autorevoli esponenti dello stesso governo ritengono «ragionevoli» alcune di quelle proposte. Quale sarà la «riforma» a giugno e dopo, con o senza Boris El tsin? E cosa ci aspettiamo dalla Russia? Il capitalismo è tante cose diverse. L'Arabia Saudita ha nazionalizzato l'industria petrolifera; i Paesi del Pacifico applicano dure tariffe e forti politiche industriali; l'America sostiene artificialmente la produzione agricola; l'Europa muove verso una moneta unica. «Affermare che l'adozione di tali politiche da parte della Russia sarebbe un abbandono della riforma e un ripristino dell'impero è un non senso ideologico» (Jerry Hough). Resta il fatto che la Russia, dopo quattro anni di «riforme», è ancora affacciata su un precipizio, con un sistema bancario che è «una bomba in attesa soltanto di esplodere» (The Moscow Times), con una disparità sociale terrificante, con l'esercito al collasso e con una criminalità senza precedenti nella sua storia e ormai superiore agl'indicatori di tutti i Paesi sviluppati. Per ottenere questi risultati l'Occidente ha speso, tra il primo settembre 1990 e il 31 dicembre 1994, 82 miliardi di dollari di aiuti (all'ex Urss, dati ufficiali della Commissione Europea). Non sappiamo chi vincerà queste elezioni. Non sappiamo neppure se quelle elezioni ci saranno davvero. Ma la «Realpolitik» è il contrario dell'ideologia e non si fa con le speranze. Anche nel cinismo ci vuole grandezza e strategia. Si possono anche combattere battaglie perdute in partenza. Non sempre perdere è disonorevole. Purché ne valga la pena. Giuliette Chiesa Il leader del partito comunista russo Ghennadi Ziuganov è in testa ai sondaggi per le presidenziali Kohl e Clinton lo appoggiano Il Fondo monetario (e l'Italia) sblocca la linea di credito Grigorij Javlinskij è il punto di riferimento per i democratici e i riformisti russi Ma i nazionalisti non apprezzano e il Cremlino pensa a un rinvio delle elezioni presidenziali