Un racconto di Carnevale di Lucia Annunziata

TORINO^ TORINO^ 51 Un racconto di Carnevale Uno che si mascherava dietro un negozio di pompe funebri in Via Berchet. Sui tetti svettavano gru sferraglianti che davano un nuovo volto all'antico centro storico. Il negozio esequiale era tetro come di dovere. Aspettai che la vecchietta tirasse sul prezzo per il mogano che doveva ospitare il consorte per il riposo eterno. Poi mi feci avanti. Il mio uomo era pallido come Emilio Ghione in Za' la Mort. Mentre sfogliavamo insieme un catalogo di oggettistica mortuaria, gli buttai lì un titolo, «Notte senza fine»; Raoul Walsh; Robert Mitchum. Capì all'istante. E mi portò nel retrobottega. Aveva diabolicamente celato la sua oppiacea merce nelle bare. Mi spiegò che c'era roba per tutti i gusti. Solo questione di palanche. Aveva addirittura un manuale di estetica cinematografica di Bela Balazs. Faticai a raffrenare l'odio. Il moinardo personaggio proseguì nell'esposizione. Mi propose per settecento carte un cartone dei puffi e, con l'aggiunta di tremilioni, anche un commento semiologico di Ghezzi con tanto di voce sfasata rispetto all'immagine. Addobbò la proposta con un sorriso mefitico. Capì che ero un duro. E mi allungò una rara edizione di «Kiss», di Warhol, avanguardia allo stato puro, col numero di telefono di una studentessa fuori corso del Dams per poter commentare la staticità deu'immagine all'ombra di una birra. Non mi trattenni più. Gli balzai addosso come un dingo e lo tortonai senza pietà. Fu facile, era polposo e molle, sfibrato dal vizio. Chiese venia, perdono, indulgenza. Annuì in silenzio alla vista della fototessera di Katia. Insieme a un molare e un fiotto ematico mi sputò anche l'informazione che cercavo. L'avrei trovata alla Pellerina, nel baraccone del Castello incantato. Un'astuta messa in scena nelle giostre di Carnevale per fare un rave party, con partecipanti da tutte le cineteche d'Europa. Ora ero lì, a fronteggiare le giostre, aspettando di acciuffare Katia e riassicurarla al calore della sua domesticità. Giocherellavo intirizzito con un mazzo di mediano blu, ammirando la strug¬ gente bellezza di quelle carte. Poi, in mezzo ai chiodi e gìns, le minigonne, i fuso, le zaffate di musica a quintali di decibel, vidi una pattuglia di pallidi individui ricurvi, i fisici e le retine smangiucchiati dal vizio. Si diressero al Castello incantato. Scattai fuori dalla macchina. Tagliai con fatica la folla festante, sporca di coriandoli e zucchero filato. Attento a non sghiare sulla mota di fango mista a neve disciolta. All'entrata del Castello imitai il segnale della ragazza filmomane che mi precedeva: indice medio anulare uniti, e mignolo che si muoveva a irò' di ciak. Mi ritrovai in un'immensa sala buia, con l'inquietante brusio di un proiettore sedici millimetri. Era una riunione per tosti. «Nodo alla gola» in lingua originale, con sottotitoli, e titoli di coda integri. Le luci s'accesero. Un uomo vestito di nero portò manciate di cadreghe sbrecciate davanti allo schermo. Afferrai cos'avevano in mente. Un inebriante dibattito sul piano sequenza in Hitchcock. Intravidi Katia, seduta in terza fila, svuotata della forza d'abbozzare sorrisi. Il gruppo di oratori s'assise e cominciò la prova microfoni. Dovevo intervenire prima che fosse troppo tardi. Esplosi due colpi di pistola in aria. Quei gagi erano talmente assuefatti al cinema d'azione che nessuno si scompose. Uno al mio fianco riconobbe i suoni e mi citò la sparatoria in «Voglio la testa di Garcia» di Peckinpah. Lo annichilii con un papagno in centro gnigno. Rovesciai sedie vuote e arrivai a Katia. L'afferrai per un braccio e cominciai a trascinarla verso l'uscita. Era inerte, quasi aspettasse quella presa amica per uscire dalla spirale della celluloide che le aveva obnubilato la fantasia. Mi feci largo con violenza, suscitando l'entusiasmo degli spettatori che pensarono di essere nei «Cavalieri dalle lunghe ombre». Regia di Walter Hill. Atterrai l'estremo ostacolo, un cinefilo di Bucarest esperto di Godard. S'afflosciò a terra e si passò le dita sulle labbra come Jean-Paul Beimondo in ((A bout de soufflé» (ovviamente in lingua originale). Raggiungemmo l'uscita, arraffati dalla rinfrescante marmaglia dei giostraioli. Brontolìi, schianti, rap, sferragli, shaggerie. Truzzi atticciati, sani, che vedevano al massimo un film l'anno, e si corroboravano in discoteca. Mi accorsi che Katia si stava bagnando di lacrime. Stringeva ancora un pacchetto di cartone, e aveva, forse, un gran desio di ritrovare l'intendimento. «Dai, le dissi, ricomincia a vivere, butta via quella porcheria». Infilò in un cassonetto «Rio Bravo» di Hawks, e guardò piurando in silenzio la vai di Susa imbiancata di neve. Per strapparla al suo tossico vizio avevo già in mente di invitarla a guardare un po' di tivù intelligente. Magari si poteva cominciare da Lucia Annunziata.

Luoghi citati: Bucarest, Europa, Susa, Torino