LA SIGNORA DEI CADAVERI

3 3 LA SIGNORA DEI CADAVERI Cornwell, delitti e femminismo PHOLLYWOOD ATRICIA Cornwell, la nuova regina del giallo, è una donna in carriera. Trentanove anni, bionda, occhi azzurri, minuta - pur se lievemente in carne anche dove non vorrebbe esserlo -, accento cantilenante da profondo Sud, divorziata dal suo professore d'inglese in università, indifferente ad altri legami sentimentali che non siano occasionali, senza strascichi. Per il resto, soltanto il lavoro e il suo staff: una sorta di harem al maschile che vive e si sposta con lei, curandone immagine, facendo ricerche, producendo efficienza quasi che le mancasse sempre il tempo per realizzare tutto ciò che pensa. E, per questo, vittima perenne di una certa insoddisfazione che sembra non lasciarla mai. Persino ora che, col suo circo al completo, ha conquistato un super contratto a Hollywood - e un intero piano del Sunset Boulevard - per sceneggiare il suo primo best seller internazionale, Oggetti di reato che trasformerà quella sua Kay Scarpetta - perennemente alle prese con misteriosi e sconvolgenti cadaveri da sezionare - in un'eroina di celluloide come capitò al Jack Ryan di Tom Clancy: dopo quest'inizio è infatti probabile che anche Quél che rimane, Insolito e crudele e La fabbbrica dei morti (Mondadori, pp. 341, L. 32.000, appena uscito in Italia e già saldamente nei primi dieci posti della classifica) salgano all'onore del grande schermo a riproporre l'epopea di una donna sola, ansiosa, un po' depressa, vagamente mascolina, che combatte per le sue idee in un mondo di poliziotti rudi e vigorosamente antifemministi. In questo ultimo romanzo Kay, diventata consulente del Fbi, si trova alle prese con il corpo della piccola Emily, un'undicenne seviziata ed uccisa in riva ad un lago. Un delitto agghiacciante che sembra recare la firma di un celebre e inafferrabile serial killer. A complicare la situazione: il teatrale suicidio in mutandine e reggiseno - dell' agente locale a cui è stato assegnato il caso; la base dei federali a Quantico violata da una spia telematica, prima sospetta Lucy, nipote-genio della stessa Scarpetta; il fido Pete Marino coinvolto in un'ambigua relazione con la madre della vittima; e - infine - la tentazione ed il cedimento di Kay ad un fuggevole momento d'amore con Benton Wesley, miglior amico (sposato) dell'ex amante ucciso da una bomba in Inghilterra. i d 'è il li li«AKay Scain b gCome si vede c'è il solito, consolidato, cast di personaggi che si muovono a proprio agio tra elegante telenovela gialla e realtà scientifica. Ma in questo caso il colpo d'ala - e, di conseguenza, la soluzione dell'enigma - sta tutto in un'invenzione, la fabbrica dei cadaveri, ingegnosa almeno quanto il famoso laboratorio dei volti di GorkyPark. Questa fabbrica è infatti una sorta di fattoria esoterica in cui entrano ed escono, come in un macabro vaudeville, dozzine di corpi senza vita che vengono sitemati su un divano, contro una pianta, nell'acqua, al gelo dell'inverno o legati a un termosifone per stabilire come gli insetti, gli animali predatori, le foglie o semplicemente il freddo, il caldo o il contatto con un metallo, aggrediscano giorno dopo giorno - i tessuti in necrosi per Patricia Cornwell: l'eroina dei suoi romanzi, Kay Scarpetta, sta per diventare protagonista di un film a Hollywood stabilire un equivalente con i cadaveri di un omicidio di cui non si conosce né la data, nè l'ora. Come le é venuta in mente un'idea del genere? «Nessuna fantasia strana. Io faccio grosso modo lo stesso mestiere della Scarpetta. Luoghi così esistono davvero, li ho visti. D'altra parte i miei romanzi sono soltanto la parte finale del mio lavoro. Tutto quello che racconto, anche le storie più complicate, ha il marchio della realtà. Se la nostra società ha bisogno del dramma di un corpo che si decomponga impietosamente per stabilire una verità, io mi limito ad osservare con l'occhio un po' gelido dello scienziato, del ricercatore. E poi registro. Così statistiche, casi e metodi diventano file di computer: quando mi sento pronta, scrivo». «Assomiglio alla mia dottoressa Kay Scarpetta, una dorma geniale sempre in bilico tra euforia e depressione» Allora anche Kay Scarpetta è un pezzo di questa sua biografia. «E' evidente. Non possediamo gli stessi geni, ma in molte cose ci somigliamo: siamo entrambe divorziate perché grandi lavoratrici e poco disposte ad essere dolci angeli del focolare. Come si dice qui: "J' nostri matrimoni falliscono perché portiamo i pantaloni con la bottega davanti". E poi non abbiamo - non per colpa nostra ma per destino una vera famiglia accanto se non sa sempre ne» quei pochi parenti che conducono una vita lontana, assurda. Vale a dire: le nostre madri o sorelle sono solo brandelli di quelle innumerevoli e miserevoli esistenze fottute dalla tv. Sapesse quante ce ne sono in America...». Perciò Scarpetta tenta di «salvare» Lucy, quella sua nipotina un po' difficile. «Lucy non è una ragazza difficile, ma un genio. Come lo ero io alla sua età. E non c'è nulla di più difficile in questo mondo che essere femmina, geniale e precoce. Sbatti continuamente contro un muro di sordità e di paternalismo. Le botte, da giovane, ti lasciano il segno addosso, ti disorientano. E talvolta ti spingono a pericolose vie d'uscita. Quali - ad esempio - la fuga da casa e la fiducia al primo che mostra di interessarsi a te». E' la storia del suo matrimonio? «Era il mio professore, che devo dirle di più? Dopodiché mi sono tirata su le maniche. Lavoro, lavoro e lavoro. Nessun altro legame, se non isolato e subito risolto, per non cedere alla distrazione. Quando uno ha i numeri e qualcosa in testa, di solito, ce la fa. Ma non è stato facile. I miei primi tre romanzi non li voleva leggere nessuno. Li ho persino mandati alla P.D. Jamos perché pensavo che la mia Scarpetta fosse un po' una Dalglish al femminile, ma lei - pur con una lettera gentile - me li ha rimandati indietro. Solo vie chiuse». Non le sembra un po' melodrammatico per una scrittrice tradotta in 20 lingue? «Non faccia lo sbaglio di credermi di origine italiana solo perché i miei personaggi si chiamano Scarpetta e Marino. Io sono mezzo tedesca. Sono una dura. Ma Kay e Pete no: vivono perennemente tra depressione ed euforia e l'italianità mi sembrava il carattere somatico a loro più adatto, perché dentro si porta anche quella fantasia e quella imprevedibilità necessarie per risolvere, con un colpo d'ala, i casi più diffìcili». Che faccia avrà Kay Scarpetta al cinema? «Non lo so. Non fanno che presentarmi volti e nomi, anche celebri, ma nessuno mi piace. Nessuno mi soddisfa. Sono così diversi da quel viso che mi sono immaginato»... Forse perché non assomiglia al suo... i di g«Lei dice?». Piero So ria IMILANO L più trasgressivo dei comici, uno spernacchiatore che porta al delirio almeno due generazioni, si trasforma in «fine dicitore»: così, tempo fa, chiamavano chi dava voce scenica alla poesia, chi appunto «diceva» liriche, rime, sonetti in pubblico. Paolo Rossi si butta nell'orgia di versi che accompagna la nascita e il boom dell'economicissima collana «I Miti Poesia» edita da Mondadori: 3900 lire per tutta Saffo e uguale prezzo stracciato per 41 poesie di Montale, 23 di Bukowski e 34 di Hikmet. Petrolini underground, comico della società metropolitana al bordo del Duemila, Rossi, per presa sul pubblico e sui giovani, è in qualche modo portabandiera di questa riscossa della cenerentola editoriale. Lo è anche se non lo vuole. «Sono anni in cui ognuno si prende o gli attribuiscono ruoli che non gli competono. E' capitato che i comici si sentissero in dovere di dare una linea politica. Loro e la loro comicità sono stati i primi a patirne, n comico deve tenere sempre una certa distanza. In scena, non può avere un codice etico, morale, politico. No, nessuna missione, nessuno "spirito di servizio", in questa mia lettura di poesia. Lo farò perché è nella mia natura tentare esperienze insolite, curiosare attraverso i generi e i mezzi più diversi, dal "Circo" a Brecht-Strehler, da "Mai dire gol" alla poesia. E' un dolce navigare, soprattutto quando azzero e riparto, anche se non è mai un vero azzerare: quel che hai fatto ti si accumula dentro». Domani pomeriggio, quando al «Piccolo» di via Rovello calerà il sipario su Ballata di fine millennio di Moni Ovadia, Rossi «dirà» poesie alternandosi a Pamela Villoresi, allo stesso Ovadia e scegliendole dai quattro volumetti mondadoriani, anche se intuitivamente gli calzeranno di più quelle del dannato Bukowski. «Lo farò a caso - racconta -. Non mi sono preparato, non ho scelto. Il bello, lo straordinario di un libro di poesia è che non ti impone una lettura ordinata, organica, com'è d'obbligo per i romanzi: un obbligo scolastico che spesso mi ha impedito di leggerli. Una raccolta di poesia la apri, la sfogli, puoi prenderla dall'ultima pagina, puoi annusarla. Sei libero. Il terribile dei romanzi è che ti senti moralmente impegnato a sorbirti anche la descrizione che ti annoia e ti inzuppa di sbadigli». La riscossa della derelitta editoriale (le medie della storica collana «Lo Specchio» sono attorno alle 2 mila copie) non ha aspettato la carica di questo «fine dicitore», dalla voce cisposa, come nel risveglio dopo una sbornia, cosi lontana dalle rotondità vocali, dall'enfasi dei dimenticatissimi mattatori del genere, il facondo Francesco Pastonchi, il regista Renato Picozzi, specializzato in odi dannunziane, e gli attori Emma Gramatica e Ruggero Ruggieri. Un primo «attacco» ha già radicato una testa di ponte nel territorio dell'indifferenza e del rimbambimento televisivo: 100 mila copie vendute complessivamente in una settimana, prima che partisse il battage dal piccolo schermo e che, con lo sgomitarsi della gente per ascoltare, lunedì scorso, Giorgio Strehler recitare Montale al Teatro Studio, iniziasse l'orgia di letture poetiche organizzate a Milano per alimentare il lancio della collana, per provocare un'inconsueta voracità di versi. Ma Paolo Rossi si trascina dietro un esercito sterminato di fedeli. Quindi, non farà male alla poesia questa sua sortita da «fine dicito-

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