Sartori il sortilegio della maschera che respira

Sartori, il sortilegio della maschera che respira In mostra a Padova le creazioni degli artigiani che in 60 anni di attività hanno rifornito i teatri di tutto il mondo Sartori, il sortilegio della maschera che respira Metà scultori e metà psicologi, per «rubare» il volto all'attore 7=1 PADOVA t' EMBRANO cavati di netto \ dal Rinascimento, dice Da11 rio Fo di Amleto e Donato , UlSartori, i due grandi mascherali ai quali il Comune di Padova dedica la mostra «Maschere e mascheramenti». Nel Palazzo della Ragione è raccolto per la prima volta in Italia un campione consistente di ciò che i Sartori hanno creato in quasi 60 anni d'attività. Questi materiali confluiranno in un prossimo «Museo vivente della maschera» che sarà ospitato nella villa Savioli-ltevisan di Abano Terme. I Sartori non hanno eguali al mondo. Amleto e suo figlio Donato sono riusciti a ridar vita a un'arte da secoli perduta. Fabbricare maschere, per loro, non è mai consistito nel coprire un volto, nel trasformarlo in qualcos'altro. La loro arte ha parentela molto stretta con la scultura, con la psicologia e con la fisiologia, è fatta di studio, di intuì- zione e di grande abilità manuale. Un giorno, indossando il prototipo di una maschera che Amleto Sartori aveva preparato per l'Arlecchino di Marcello Moretti, Dario Fo disse: «Respirava con me, la voce usciva tonda e fortemente proiettata. Eppure il mio viso, la mia struttura facciale non hanno niente a che vedere con quella del Moretti». La stupefazione di Fo si spiega col fatto che, prima di Sartori, le maschere erano rigide, non consentivano di respirare e graffiavano la pelle. Per eliminare gli inconvenienti, molti interpreti di Arlecchino e di Pulcinella preferivano disegnarsi la maschera sul volto. Con i Sartori ritornò la perfezione del passato. Quale attore e quale mimo non hanno mai usato una loro maschera? Persino il Giappone, gli Stati Uniti e l'ipersriovinista Comédie Frangaise si sono rivolti a loro. Amleto, e dopo di lui Donato, preparavano per ciascuno le loro prodigiose creazioni: di cuoio, legno laccato, argento, cera, bronzo. Amleto Sartori cominciò a occuparsi di maschere nell'immediato dopoguerra. Aveva fama di discreto scultore, e nel '45 Gianfranco De Bosio lo chiamò al neonato teatro universitario di Padova, dai forti interessi verso i classici latini e greci e verso il recupero della Commedia dell'Arte. L'idea della maschera teatrale era entusiasmante. Amleto la considerava una forma di scultura vivente e, per realizzarla, riuscì a recuperare una tecnica antica: incideva in uno stampo di legno le fattezze del volto da rappresentare e su questo modellava U cuoio. Dario Fo notò una volta: «Se rovesciate una maschera e osservate l'interno noterete una sequenza di tracce incise e sollevate in volumi quasi a solco e ad argine. Lo stesso succede osservando l'interno di viole e violini». Subito dopo, Amleto Sartori fu chiamato da Giorgio Strehler, poi collaborò con Eduardo De Filippo e con Fo. Nel '55 fece per Jean-Louis Barrault 70 maschere classiche che dovevano servire a una rappresentazione àeìì'Orestiade. E quando il figlio Donato assolse l'obbligo scolastico lo chiamò subito in bottega, come se presentisse la fine e volesse affidare a qualcuno il segreto della propria arte. Amleto morì di cancro nel '62, a soli 42 anni. Ma il suo lavoro ha trovato in Donato un continuatore altrettanto geniale e appassionato. Anche con lui la maschera sembra dotata di uno specialissimo sortilegio: quando l'attore se la stacca, ha l'impressione che la sua faccia sia rimasta incollata nel concavo interno del cuoio. Osvaldo Guerrieri Si sono rivolti a loro Strehler, Eduardo e Fo, americani, giapponesi e perfino la ipersciovinista Comédie Frangaise ' 4T 1 Una delle maschere realizzate dai Sartori

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