TASSE Il miracolo degli «odiosi balzelli» di Sergio Romano

LA STAMPA1 Le misure della destra storica? Da rivalutare secondo Marongiu, anche l'imposta sul macinato TASSE Il miracolo degli «odiosi balzelli» /\ IUANTO sudore, quante laI 1 crime, quanto sangue coI I steranno agli italiani l'ade1 I sione all'Unione monetaria -VJe il rispetto dei parametri V fissati dal trattato di Maastricht? A quali sacrifici dovremo sottoporci per ridurre il disavanzo e il debito pubblico ai livelli (rispettivamente 3% e 60%) fissati dal trattato? Dovremo pagare altri balzelli, pedaggi, imposte, «una tantum» e addizionali, oltre a quelli che lo Stato già esige dai suoi cittadini? E, infine, che cosa fare perché l'onere fiscale venga meglio distribuito sulle spalle degli italiani e il Paese più tassato d'Europa non sia anche quello in cui le tasse vengono evase con maggiore spudoratezza? Nessuno può dire che cosa accadrà di qui al 1° gennaio 1999, ma gli storici sanno perfettamente che cosa accadde in circostanze analoghe centotrenta anni fa. Lo sa in particolare Gianni Marongiu, professore all'università di Genova, storico del sistema tributario italiano e autore di un bel libro, recentemente apparso presso Einaudi, sulla politica fiscale della Destra storica (Storia del fisco in Italia, voi I). Leggendolo mi è accaduto di perdere il senso del tempo trascorso e di confondere continuamente il passato con l'attualità. Ne raccomando la lettura a coloro che governeranno l'Italia nei prossimi tre anni. La storia raccontata da Marongiu comincia nella primavera del 1861. Alla vigilia della proclamazione del Regno d'Italia, il Piemonte è uno degli Stati più indebitati d'Europa. Qualche mese prima, per sostenere le spese della guerra e delle annessioni,, ha contratto un prestito per centocinquanta milioni, vale a dire per una somma che corrisponde, grosso modo, all'8% del suo prodotto interno lordo. Se qualcuno spera che le conquiste servano a rinsanguare i conti dello Stato s'inganna. Al momento dell'unione quasi tutti gli altri Stati della penisola hanno un sistema tributario arcaico. Nel Regno delle Due Sicilie, in particolare, l'onere fiscale è modesto, ma iniquo e lo Stato incassa denaro senza fornire ai cittadini alcun corrispettivo. Un grande economista napoletano, Antonio Scialoja, scrisse che il sistema delle imposte a Napoli era fondato su tre principi: «Conservare le imposte antiche la cui ingiustizia si avverte meno o risale ad altri governi; preferire quelle pagate da chi meno se ne accorge; infine lasciare immuni da imposizione diretta quelle classi di cittadini che sono più querule (...) o che hanno il malvezzo di ragionare». Lo spettacolo che si apre di fronte agli occhi degli amministratori piemontesi quando mettono piede nelle province meridionali è quello descritto da Leopoldo Franchetti negli appunti di un viaggio che egli fece quindici anni dopo: «Ad eccezione di poche città vi trovammo (...) un popolo confinato in un paese mezzo selvaggio, racchiuso nei suoi luridi borghi e nei suoi campi circostanti, senza strade per allontanarsene, ignorante e laborioso, diretto da preti poco più civili di lui e da signori, una parte dei quali ignoranti quanto lui, ma più corrotti; i buoni o in galera, o sorvegliati o cacciati; segregati tutti dal resto d'Italia e d'Europa da un sistema di proibizioni commerciali, di passaporti e d'esclusione di libri; neU'amministrazione una corruzione svergognata». Per ragioni di opportunità politica e correttezza internazionale il nuovo Stato dovette accollarsi il debito pubblico di tutti gli Stati annessi e conquistati.. Fatti i conti, Pietro Bastogi, ministro delle Finanze nel governo Ricasoli, scoprì che l'Italia nasceva con un disavanzo di 400 milioni, non troppo lontano, in lire correnti, da quello che ha oppresso in questi anni le finanze dello Stato. Per il servizio del debito e le grandi opere pubbliche di cui il Paese aveva bisogno, fu necessario prendere a prestito altri cinquecento milioni. Crebbe il servizio del debito, si accentuò la differenza fra i tassi d'interesse che lo Stato italiano pagava ai suoi creditori e il costo del denaro sui mercati finanziari internazionali. Ecco la «porta stretta» attraverso la quale dovettero passare sino al 1876 tutti i governi italiani Lo Stato doveva tranquillizzare i creditori e dimostrare che avrebbe fatto fronte a tutti gli impegni dei suoi predecessori. Ma doveva altresì, per unificare il Paese, spendere somme colossali in strade, porti, ponti, ferrovie, comunicazioni telegrafiche, scuole, ospedali. E doveva infine, per riacquistare la fiducia degli investitori stranieri, pareggiare il bilancio. Come realizzare questo triplice obiettivo in un Paese in cui, ricorda Marongiu, «le entrate tributarie coprivano poco più di metà delle spese e due terzi di queste erano assorbiti dal mantenimento dell'esercito e dal servizio del debito pubblico»? La risposta è in una dichiarazione di Quintino Sella, ministro delle Finanze nel 1862: «Imposte, imposte e nuli'altro che imposte». Comincia così una delle operazioni più illuminate e coraggiose mai compiuta da uno Stato moderno. Furono Enrico Bastogi, Giovanni Lanza, Marco Minghetti, Anto¬ nio Scialoja e Quintino Sella i veri fondatori dello Stato nazionale. In quindici anni, dal 1861 al 1876, crearono un sistema fiscale severo, ma equo, moderno .e corrispondente per quanto possibile alle reali esigenze del Paese. Una delle misure più decisive fu l'imposta di ricchezza mobile, adottata nel 1864. Anziché limitarsi a tassare i consumi e la terra il governo decise d'ispirarsi ai migliori modelli occidentali e di proporre al Parlamento un'imposta nuova, più adatta alle caratteristiche di una società borghese, mercantile e industriale. Non fu semplice. Quando giunse alla Camera la legge si scontrò con uno sbarramento di proposte dilatorie e di astuzie procedurali. Minghetti tagliò corto, annunciò che non avrebbe accettato rinvìi e disse che era pronto ad accettare tutte le esecrazioni che sarebbero cadute sul capo del ministro delle Finanze. Non mancarono gli incidenti di percorso. La grande tempesta monetaria del 1866 colpì duramente lo Stato italiano. Mentre molte banche europee sospendevano i pagamenti e la Banca d'Inghilterra elevava lo sconto del 10%, l'Italia dovette proclamare il corso forzoso della lira. Come nel 1992, in altre parole, fummo costretti a uscire dal sistema europeo. Non basta. Come nel 1992 dovemmo rimpinguare le casse dello Stato con la privatizzazione di beni demaniali, fra cui, in particolare, l'asse ecclesiastico. Ma il governo tenne duro e continuò a lavorare, con una straordinaria continuità d'indirizzo, per il risanamento dei conti pubblici. Nella storia del pareggio vi è, come noto, una macchiarla tassa sul macinato, istituita il 1° gennaio 1869. Era un'imposta sui consumi, non molto diversa da quelle che paghiamo oggi sotto altri nomi. Ma nella sue forme più antiche assoggettava il mugnaio e i suoi clienti a intollerabili misure di polizia. Marongiu ricorda che si poteva macinare soltanto «in ore determinate, e non dopo il tramonto, salvo che il mugnaio acconsentisse alla condizione severissima di stare rinchiuso solo dentro il mulino, potendo solamente scassinarne la porta in caso di alluvione o d'incendio». Per modernizzare il balzello, Sella, ingegnere, immaginò «un contatore che segnasse i giri della ruota macinante per determinare la quantità di materia macinata e liquidare la tassa dovuta». Ma quando la tassa fu applicata Sella non era più alle Finanze e i contatori non erano ancora pronti. Fu questa probabilmente la ragione dei tumulti che scoppiarono, soprattutto in Emilia dove comparvero cartelli su cui era scritto «Viva il governo austriaco!», «Viva il papa!», «Viva la religione!» «Viva Francesco V!» (il vecchio duca di Modena). Ma la cattiva fama della tassa sul macinato (una fama alimentata dagli studi su Bakunin e dal Mulino del Po di Riccardo Bacchelli) non tiene conto del fatto che il tributo dette un apporto decisivo al risanamento dei conti pubblici. Marongiu ricorda che il gettito fu di quarantasei milioni nel 1871, di cinquantotto nel 1872 e di settantasei nel 1875. Mentre i contatori di Quintino Sella calcolavano la quantità di «materia macinata», i bilanci dello Stato italiano diventavano sempre meno rossi. Quando si accorse che gli italiani avevano messo in ordine il loro bilancio l'Europa non risparmiò suoi elogi Negli Anni Sessanta un viaggiatore straniero aveva intitolato il suo libro, ironicamente, Voyage au pays du déficit. Nel 1878 uno studioso tedesco osservò che essa aveva «quasi violentemente unificati debiti pubblici e sistemi monetari e (...) posto in essere, senza troppo esitare, un sistema d'imposte, la cui durezza si giustifica solo riconoscendo l'assoluta necessità sua». Ne concluse che l'Italia era il solo Paese d'Europa in cui il governo avesse capito che debiti e imposte sono il prezzo inevitabile dell'unità e della libertà; «e sa pagarlo». Sapremo comprendere che anche l'unità d'Europa, come l'unità d'Italia, comporta un «prezzo inevitabile»? Non possiamo certo imitare i padri della finanza nazionale e aumentare ulteriormente la pressione fiscale. Ma possiamo cercarne di imitarne il loro stile, la loro fermezza e la scarsa considerazione in cui tennero, nei momenti decisivi, gli umori della pubblica opinione. Abbiamo bisogno di un primo ministro capace di dire al Parlamento, quando gli presenterà il suo governo, le parole con cui Minghetti impose nel 1863 l'imposta dì ricchezza mobile: «Accetto (le esecrazioni) di buon grado, perché stimo ciò necessario pel Paese, perché ho la coscienza che qualunque siano le irregolarità di questa tassa ed i suoi inconvenienti essi sono infinitamente minori del grande, del solo pericolo che è quello di disfare l'Italia per mancanza di buone finanze». Sergio Romano Una storia dell'Italia fiscale: % le drammatiche tappe per risanare il «Paese del deficit» DaSellaaMinghetti le idee moderne S dei padri fondatori della finanza italiana S % ato 2 Soldati dell'esercito regio in manovra. A destra, Marco Minghetti. Sopra, Quintino Sella