La marcia di Davy Crockett di Vittorio Zucconi

Anche stavolta Lamar ha fatto campagna spostandosi a ritmo di jogging PERSONAGGIO La marcia di Davy Crockett Dal Tennessee a piedi verso la Casa Bianca LA SORPRESA E WASHINGTON cammina cammina, il candidato con gli stivali arrivò in vista di una bella casina. Una casa tutta dipinta di bianco, con una bandiera a stelle e strisce appesa sotto il porticato, una guardia in uniforme davanti al portone e un famoso ufficio di forma ovale dentro. La Casa Bianca. Lamar Alexander, ormai divenuto il «terzo uomo» di quel centro destra repubblicano che cerca disperatamente un candidato decente da mandare a perdere contro Clinton in novembre, è il primo politicante della storia americana che cerchi di arrivare alla Casa Bianca a piedi. Il suo «gimmick», il suo espediente propagandistico in un mondo della politica che li ha provati tutti, dagli aerei agli autobus alle mongolfiere alle biciclette, sono le scarpe. Sono quegli stivali delle sette leghe che lo hanno portato prima alla residenza di governatore del suo Stato, il Tennessee, dopo una maratona elettorale di mille e seicento chilometri percorsi sempre camminando e oggi a sfidare il senatore Dole e il «boia chi molla» della destra Buchanan nelle elezioni primarie del New Hampshire. Che lui ha, naturalmente, percorso a piedi, per un rispettabilissimo totale di 260 chilometri. Fino a qualche settimana fa, ancora alla fine dello scorso anno, questo cinquantacinquenne dal viso mite, dai tratti sfumati fino ad essere quasi invisibili, conterraneo di Davy Crockett, l'eroe nazionale del Tennessee, era l'asterisco in calce alla pagine, il capoverso da tagliare e da buttare via negli articoli troppo lunghi. Il suo nome, stampato sui manifesti elettorali con un patetico punto esclamativo alla fine, «Lamar!», per fingere un'eccitazione che nessuno provava, era lo scherzo, la battuta della campagna presidenziale 1996. Quando una elettrice del New Hampshire, lo Stato dove oggi si svolge un'elezione primaria già decisiva per i repubblicani, disse che lei avrebbe votato per lui soltanto se l'avesse invitata a ballare, Lamar! si precipitò a invitarla a una danza campestre e la signora accettò. «Ecco scrisse un giornale locale - Lamar! ha conquistato il suo unico voto in New Hampshire». Ma i mass media e gli analisti politici, la cui principale attività sembra da qualche tempo spiegare perché sbagliano le loro analisi, non avevano fatto i conti con lo spirito di Davy Crockett. E con la desolante nullità del campo repubblicano. Sgonfiato il pallone di Steve Forbes, il miliardario che credeva di potersi comperare la Casa Bianca a colpi di spot e limitato all'estrema destra l'appeal di Pat Buchanan, dal panorama in grigio del centro destra americano è emerso il profilo del candidato con gli stivali, di Lamar! Alexander. Ora è terzo, nei sondaggi, subito alle spalle del leader che nessuno vuole davvero, lo scuro, anziano, perennemente corrucciato «Darth Vader» del Senato, Bob Dole e l'impresentabile Pat Buchanan. Con la sua perenne camiciona di flanella scozzese a scacchi rossi e neri da boscaiolo della frontiera, il Davy Crockett delle presidenziali '96 sta interpretando la parte del cittadino qualunque, dell'americano tranquillo strappato alla sua capanna e alla sua onesta fatica dal disgusto per la corruzione e per l'indifferenza della capitale. «Devo provarci - confida agli studenti e alla gente che lo affianca per strada, mentre cammina, come Fon-est Gump - perché non posso lasciare l'America a Clinton, che finge di avere una visione per il Paese o a Dole che è troppo onesto per far finta di avere idee o visioni». Devo provarci, ripete, per smantellare «il fradicio edificio» sessantenne del New Deal e dello Stato assistenziale, per «restituire l'assistenza pubblica alle comunità locali», per dare alle nuove generazioni «molti più boy scout e molti meno spacciatori di droga». Sono banalità politiche desolanti, parole senza sostanza. Ma almeno il tono è garbato, la retorica serena, il tratto per bene e la musica dolce, per le orecchie di un elettorato perennemente orfano di Ronald Reagan, l'uomo che diceva: «La sincerità in politica è tutto. Chi riesce a fingerla meglio, vince». Quando si ferma, Alexander sa suonare davvero, alla tastiera del pianoforte o con l'armonica in bocca, proprio come i menestrelli della Country Mu¬ sic che hanno nel Tennessee, e nella città di Nashville, la loro mecca. Ma proprio come tra le valli verdi del suo Stato si nascondono i peggiori distillatori e contrabbandieri di «moonsbine», di bourbon clandestino, così sotto la camicia da taglialena e le note da folk singer c'è un passato che non lascia tranquilli gli elettori. Quando Lamar! arrivò - camminando - alla carica di governatore del Tennessee nel 1978, era ancora il modesto figlio di due insegnanti elementari, un uomo che aveva dovuto lavorare per mantenersi agli studi di giurisprudenza e aveva in banca 150 milioni di lire in tutto. Quando lasciò le sue Smoky Mountains, le Montagne Affumicate, Nashville, Chattanooga e le valli di Davy Crockett per andare a Washington a fare il ministro della Pubblica istruzione per George Bush, nel 1991, era un multimiliardario e non certo grazie agli 80 milioni annui di stipendio da governatore. Con una fortuna da fare invidia alla «Nostra Signora dei Vitelli», come la chiamano gli umoristi, Hillary Clinton, che aveva investito un milione di lire nella Borsa dei bovini e ne aveva ricavati 100 in poche settimane, Lamar! aveva visto moltiplicarsi infallibilmente tutti i suoi risparmi, fantasticamente amministrati da potenti amici finanzieri. Fortuna, abilità, spiegò lui. Ma forse troppa fortuna. Un banchiere gli prestò mezzo miliardo di lire senza interessi quando era governatore e subito si ritrovò presidente della importante Università del Tennessee. Un amico gli vendette a prezzo di saldo per un pugno di milioni in lire il quotidiano di Nashville, la città più importante dello Stato, e lo stesso quotidiano fu ricomperato pochi mesi dopo dalla catena editoriale Gannet per vari mihardi. Fortuna, certamente. E molto fortunato fu anche quando investì danari nella costruzioni di prigioni privatizzate, che egli aveva voluto e autorizzato come primo cittadino dello Stato. Un Davy Crockett con la mira infallibile per la caccia grossa ai dollari? O un Clinton repubblicano, capace di inveire da outsider contro la corruzione e le pastette del potere politico, ma poi incapace di dire la verità sulle proprie pastette da insider, da «uomo dentro»? I successi elettorali e i sondaggi lavano molti peccati e molti dubbi in politica e finora Lamar! ha avuto ragione, camminando dall'oscurità fino alle posizioni di testa nella corsa alla nomination, alla candidatura del suo partito. Difficilmente oggi vincerà, ma a lui basta restare in corsa almeno fino alle elezioni nel Texas dove dovrebbe scattare per lui la protezione del suo grande amico e supportar, l'ex presidente George Bush. E sarà in Texas che il candidato con gli stivali combatterà la sua ultima battaglia. Proprio come Davy Crockett, caduto sugli spalti di Marno. Vittorio Zucconi Anche stavolta Lamar ha fatto campagna spostandosi a ritmo di jogging li «terzo uomo» repubblicano Lamar Alexander