Giulini lu mia Callas un romanzo

Incontro con il Maestro che l'altra sera ha diretto al Lingotto l'Orchestra Rai Incontro con il Maestro che l'altra sera ha diretto al Lingotto l'Orchestra Rai Giulini: lu mia Callas, un romanzo «Una donna non amata col cuore di tigre» TORINO. Carlo Maria Giulini l'asceta, il musicista gentiluomo che si rivolge ai suoi interlocutori con un elegante «loro comprenderanno che...», ha diretto per la prima volta a Torino l'Orchestra Nazionale della Rai e ha offerto al pubblico del Lingotto la «Nona» di Bruckner, trasmessa giovedì in diretta su Radiotre. Replica domani alle 17 anche a Ferrara Musica. Ottantadue anni, direttore da quando ne aveva trenta, Giulini ha dalla sua esperienze che pochi altri artisti possono vantare: aver suonato (la viola) con direttori come Toscanini, Klemperer, Furtwàngler, Walter, Wood, Richard Strauss, De Sabata, Guarnieri; aver vissuto ai tempi di Ravel e Respighi, aver diretto prime assolute dei grandi del Novecento. Toscanini, Maria Callas, Arturo Benedetti Michelangeli, Horowitz. Seno questi i compagni della sua avventura musicale, gli artisti che più hanno colpito la sua fantasia. Maestro, com'era la Callas? «Era una cicciona informe, indomabile, infelice, forse incapace di amare, sicuramente non amata, né da Meneghini che si addormentava ai suoi concerti e che lei svegliava urlandogli nelle orecchie, né da Onassis, né da altri. Ma aveva una voce e una personalità senza confronti. La vidi per la prima volta il giorno in cui De Sabata mi chiamò per dirigere "Traviata" alla Scala. Maria doveva sostituire la Tebaldi ammalata. Mi disse a bruciapelo: "Io non sono la Tebaldi, canto in modo diverso". La misi alla prova e capii che quella grassona brutta, quella tigre, aveva l'oro in gola e un animo universale. La rividi uno o due anni dopo per strada a Milano. Mi abbordò: "Non si ricorda di me?". Era snella, bellissima, altera. Io non so dire chi fosse veramente la Callas e credo che la sua personalità fosse un mistero anche per lei. Quando facemmo "Traviata" con Visconti regista, studiammo per due settimane ogni giorno solo il ruolo di Violetta. Per lei quel personaggio era anima e carne». E Benedetti Michelangeli? «Un altro artista misterioso, dal carattere incontrollabile, scostante. A Monaco dovevamo fare una serie di concerti per pianoforte e orche- stra. Mi fece sapere che stava male. Seppi che non era vero. Mi rifiutai di far musica con lui e giurai che non avremmo mai suonato assieme. Una sera, a Tel Aviv, fu l'ambasciatore d'Italia in Israele a dirmi: "Maestro, adesso basta con questa storia". Non potevo più mantenere la mia parola. Ci rivedemmo a ima cena. Michelangeli fece un sorriso a mia moglie, ma- rifiutò di salutarmi. Dissi ad alta voce a mia moglie: "Non voglio più sentir parlare di Michelangeli, perché al pianoforte è un cane". Era ima provocazione, naturalmente. Michelangeli non disse una parola, si avvicinò a mia moglie e le baciò una mano. Completammo la tournée, sedici concerti, senza scambiarci una parola. A New York, dopo l'ultima serata, una signora che non conoscevo venne nel mio camerino e mi disse: "Benedetti Michelangeli desidera fare un disco con lei, accetterà?". Accettai, non aspettavo, altro. Arturo ci faceva impazzire per la scelta dei pianoforti, a Vienna per Beethoven se n'era portato appresso cinque, li provava tutti, ma non decideva mai. Era un tormento, fino all'ulti¬ mo momento, ma in concerto suscitava emozioni irripetibili». Horowitz era un pazzerello- ne? «Pazzerellone? Era un matto. Credeva di non saper suonare. Rimase 12 anni senza fare un concerto. Prima della sua esibizione alla Carnegie Hall di New York, si chiuse in camera con il suo pianoforte senza vedere nessuno. Nel giorno del concerto si mise in macchina e chiese: "Dove andiamo?". "Alla Carnegie per il tuo concerto", rispose la moglie. Vladimir stava per buttarsi dalla macchina ma fu salvato in tempo. Naturalmente suonò in modo incomparabile. Horowitz e Michelangeli sono gli unici che mi hanno fatto dimenticare che il pianoforte è uno strumento a percussione». Di Toscanini cosa ricorda? «Toscanini tornò in Italia dagli Stati Uniti per riaprire la Scala, ed io, vigliaccamente, non andai alle prove. Sua figlia Wally mi salvò da una situazione imbarazzante: "Papà vuole conoscerti", mi disse e così, mentre dirigevo Kccinni, Toscanini si fece vivo e sentenziò: "Non conosco quest'opera, ma i tempi sono giusti"». Maestro, perché i teatri moderni acusticamente sono mediocri? «Perché la tecnologia non ha nulla a che vedere con la musica. Uno strumentista deve vibrare con il corpo fino al pavimento e deve trasmettere vibrazioni. Sotto il Musik vere in, a Vienna, scorre una vena d'acqua. E' quella che incredibilmente propaga il suono. Per l'acustica ci vuole genialità». Perché non dirige più opere? «La mia ultima volta è stata il "Falstaff". Avevo un cast eccellente, studiammo per due mesi e portammo l'opera di Verdi a Los Angeles, Firenze e Londra. Credo sia un'operazione oggi irripetibile». Perché chiusero l'Augusteo di Roma, il teatro che lei ha amato di più? «Perché fecero credere a quello zuccone di Mussolini che sotto il teatro c'era la tomba di Augusto. Moriva un teatro che aveva la migliore acustica d'Italia». Armando Caruso Carlo Maria Giulini