Grozny la dinamite caccia lo spettro d'un altro nemico

Grozny, la dinamite caccia lo spettro d'un altro nemico L'OSSESSIONE DEI SIMBOLI Grozny, la dinamite caccia lo spettro d'un altro nemico CMOSCA OME liberarsi dai fantasmi. Potrebbe essere questo l'epitaffio, il cartello indicatore, la targa commemorativa da affiggere sulla piazza principale di Grozny dopo che la dinamite dell'esercito russo ha definitivamente raso al suolo il «palazzo presidenziale» di Dudaev. Ieri, infatti, nel giorno stesso in cui Boris Eltsin annunciava «al mondo» la propria candidatura per il secondo mandato presidenziale, nella capitale cecena si consumava la demolizione ufficiosa dell'edificio che diventò simbolo della resistenza cecena. Non tragga in inganno la data. Siamo nel XX secolo solo in apparenza. Marguerite Yourcenar nella sue «Memorie di Adriano» ci invita a non commettere l'errore di supporre che un uomo, una famiglia, una società, necessariamente partecipino alle idee o agli avvenimenti del secolo nel quale si trovano a vivere. Osservazione particolarmente appropriata nel caso della Russia di oggi e dell'altro ieri. Gli antichi conquistatori usavano radere al suolo le città sconfitte. C'era una logica, anche se oggi la definiremmo barbara: di solito i loro abitanti venivano sterminati, prelevati in schiavitù, venduti. Ma c'era anche qualcosa di più profondo, di primitivo e inconscio: la paura dei morti, della loro vendetta; la necessità di cancellare perfino il loro ricordo, la paura degli dei delle civiltà sconfitte, da esorcizzare abbattendo i templi nei quali avevano, per così dire, «vissuto». Povero Marx! Forse non avrebbe scritto i «Grundrisse» se avesse immaginato che, nel suo nome, Stalin avrebbe abbattuto con la dinamite la cattedrale del San Salvatore, per edificare sulle sue rovine una piscina con l'acqua calda per i moscoviti convertiti obbligatoriamente al materialismo dialettico. E non fu l'unica chiesa rasa al suolo con le stesse, recondite «motivazioni»: eliminiamo l'immagine, il simulacro, l'involucro materia- le, e distruggeremo l'idea che esso rappresenta. I regimi ideologici, com'è noto, hanno due coazioni a ripetere: darsi un'immagine architettonica, come un logos, e liquidare il ricordo dei predecessori. Ma bisogna avere una sorta di grandezza, per quanto diabolica, per realizzare un disegno del genere, per erigere le piramidi, o le guglie gotiche che ancora oggi dominano il profilo di Mosca. Boris Eltsin si rivela, in questo, un epigono minore. Non ha un'immagine architettonica propria. Per adesso la Mosca del suo regime si ferma alle aquile imperiali sulle porte di Kitai Gorod, ricostruite sulla Piazza Rossa identiche a quelle seicentesche originali. Il resto è copiatura del vetrocemento di Los Angeles e di Kuala Lumpur, tipica della borghesia «compradora» dei paesi colonizzati. > Ma, quanto a distruzione dei simboli dei regimi precedenti, il presidente russo nostro contemporaneo è imbattibile. Anzi sembra inseguito da qualche Erinni vendicatrice che, sotto ogni bandiera, lo spinge a ripetere coattivamente lo stesso gesto simbolico. Toccò a lui, negli Anni 70, quando era ancora un fedele leader comunista sovietico, quando guidava come primo segretario regionale il partito di Sverdlovsk (oggi Ekaterinburg), eseguire l'ordine di abbattere la «Casa degli Ipatiev», nei cui sotterranei l'intera famiglia imperiale venne liquidata dal bolscevichi. Il pcus aveva, in materia, le stesse idee di Gengis Khan. Il futuro luminoso del comunismo brezneviano non poteva tollerare quelle umbratili vestigia del passato, meta di circospetti pellegrinaggi. Eltsin eseguì puntualmente. Ancora adesso, al posto della «Casa degli Ipatiev» c'è uno spiazzo nudo, con una lapide e un piccolo tempietto provvisorio, in attesa della beatificazione di Nicola II. In compenso Boris «figlio di Nicola» ha adottato tutta l'iconografia zarista per segnalare ai passanti il proprio potere. Poi cadde il comunismo e davanti a Eltsin si erse, come una minacciosa torta di cemento armato, la Casa Bianca ribelle di Rutskoi e Khasbulatov. Fino a due anni prima era stata la sua. E, prima ancora, vi alloggiava il governo della Repubblica Socialista Sovietica Federativa Russa. Ma l'Erinni, implacabile, ordinò l'abbat- timento. La dinamite non serviva, nel caso specifico. Bisognò utilizzare i carri armati. Dentro c'erano qualche migliaio di persone, ma l'operazione fu comunque condotta in porto brillantemente. Il fantasma comunista fu sistemato e, dopo due anni, i comunisti vinsero le elezioni. Adesso tocca al palazzo di Dudaev. Il simbolo secessionista è crollato in una nuvola di polvere. Ma i fantasmi, purtroppo, non sono fatti di mattoni. Giuliette Chiesa L'esercito russo ha fatto saltare il palazzo di Dudaev: un rito cominciato con Stalin Boris l'ha continuato dalla «Casa Ipatiev» fino alla «Casa Bianca»

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