Gobetti un buco nero ancora da scoprire

Gobetti, un buco nero Gobetti, un buco nero ancora da scoprire LA MEMORIA. Il ricordo di Dionisotti, 70 anni dopo ENA commemorazione di Gobetti in questa fine di secolo, in questa Italia, richiede competenza storica, di storia politica. La letteratura è ai margini. Ma commemorando Montale nel centenario della nascita, c'è chi oggi ritrova la fondamentale prima edizione, gobettiana, degli Ossi. E nelle nostre scuole universitarie di letteratura italiana ancora dura il ricordo di due maestri, Fubini e Sapegno, inseparabili, nella loro formazione giovanile torinese, dal coetaneo Gobetti. E a Roma sopravvive il nostro Aldo Garosci, che nel gobettiano Baretti cominciò la sua carriera di giornalista con articoli di storia letteraria del Cinquecento. Un compagno di Garosci, un vecchio studioso di letteratura italiana, non può oggi ricordare Gobetti, morto venticinquenne e ancora per noi così vivo, senza considerare l'assenza di lui nella Resistenza, nel secondo dopoguerra, nella ricostruzione, accanto a quei due maestri, Fubini e Sapegno, ad altri della stessa generazione e compagnia torinese, Giacomo Debenedetti e Carlo Levi, accanto ai giovani. Il nostro bilancio di fine secolo, politico e letterario, è anche di quel che ci è mancato e ci manca. Gobetti morì esule a Parigi, perché in Italia aveva giocato e perduto la sua partita politica. Aveva visto giusto, nell'immediato dopoguerra, che c'erano in Italia energie nuove. Ma non che da quelle potesse nascere una rivoluzione liberale. I cosiddetti liberali erano, e sempre sarebbero stati, contrari a ogni rivoluzione, che non fosse quella delle colonie americane, a distanza di secoli e di oceano. Gli autentici o sedicenti rivoluzionari non erano, né mai sarebbero stati liberali. La sconfitta politica di Gobetti era nel 1925 irrimediabile e totale. A differenza di Gramsci, più vecchio di dieci anni e politicamente tanto più esperto, ma più imprevidente e altrettanto inerme, Gobetti capì che nell'attesa di una improbabile rivincita, di un immaginario ordine nuovo, l'ordine vecchio, la legge scritta, qualunque legge, non gli dava garanzia alcuna di soprav- Ma prima di lasciare l'Italia, Gobetti volle e potè costituire una estrema linea difensiva, letteraria, munita da amici meno compromessi di lui. Nacque così II Baretti, con titolo ostentatamente letterario, non politico. Gobetti non era un letterato, ma aveva imparato il mestiere suo dalle riviste, prevalentemente letterarie, di prima della guerra. Di fatto, al di là di Gobetti, lo stesso regime fascista, capace di tenere sotto stretto controllo la stampa politica, non riuscì a togliersi di dosso il prurito, fastidioso e ricorrente, quasi una foruncolosi, delle riviste letterarie. Da ultimo, negli Anni Quaranta, quando ogni cosa andava a rotoli e i più furbi pensavano allo scampo proprio e a un naturale, benché doloroso, trapasso del regime, venne l'idea di fare d'un semiufficiale periodico letterario, Primato, una deserta coltrice per quel trapasso. Il titolo giobertiano di questo ultimo e funereo periodico letterario dell'era fascista si presta a un paragone coll'ultimo periodico gobettiano. L'autore del Primato, Gio¬ berti, era stato piemontese e esule come Baretti. Ma anche era stato prete e filosofo, differenza insuperabile. Comunque, nel titolo della rivista di Bottai il Primato voleva essere anche e principalmente quello religioso della Chiesa di Roma e giuridico dell'antico Impero: Gioberti, il Piemonte, la monarchia erano di riserva, sottintesi. Il titolo della rivista di Gobetti non si prestava a equivoci: era esplicitamente piemontese, letterario e restrittivo. Ed era insolito come titolo personale. Baretti non è Dante, ossia L'Alighieri; neppure però è Basile o Borghini o Fanfara, per citare altri titoli di periodici letterari dell'Otto¬ cento. Viene fatto di pensare piuttosto (non che ci pensasse Gobetti) al Poliziano del giovane Carducci, che anche richiamava l'antico autore a un dibattito attuale. A Gobetti bastava sapere che Baretti, piemontese, borghese, esule dal Piemonte e poi dall'Italia, indipendente, vissuto sempre del suo lavoro, guardando ogni altro in faccia da pari a pari, parlando e scrivendo correntemente le lingue d'altri Paesi e con gelosa maestria la propria, era stato il più spavaldo e mordace critico letterario italiano. Non poteva sfuggire a Gobetti il paragone coli'altro e maggiore esule piemontese, l'aristocratico, anarchico e poetico Alfieri. Era chiaro che Baretti, piuttosto che Alfieri, poteva dare il suo nome a una resistenza e opposizione letteraria piemontese. Anche perché il borghese Baretti, che non portava spada e non correva il rischio di doversi battere per motivi d'onore in un parco di Londra, non era però armato di sole parole, benché ne avesse a sacchi in più lingue. Una brutta sera, aggredito per dileggio e per furto in una via di Londra, aveva estratto di tasca un coltello e si era difeso mandando all'altro mondo l'aggressore. Se Dante abbia ammazzato qualcuno nella battaglia di Campaldino, non sappiamo. Probabilmente no. La letteratura italiana è generalmente pacifica. Si capisce che Baretti fosse entusiasta lettore della Vita di Benvenuto Celimi. E si capisce che Gobetti riconoscesse in quel critico letterario indipendente, competente e tagliente, piemontese ma a distanza, italiano e insieme europeo, un ideale antagonista del fascismo. Scegliendolo, non si accordava in tutto cogli amici suoi. Né coi maestri, con Croce; né con la tradizionale storiografia letteraria italiana. Perché Baretti è un critico digiuno di filosofia e diffidente della politica, e perché è un rompiscatole, intento a scompigliare quel che i moderni storici faticano a mettere in bell'ordine. Il cielo dell'età dei lumi si riempie per lui di nuvole. Detesta i ripetitori del passato, ma altrettanto i novatori. Nessuno poteva, né potrebbe oggi fare storia letteraria del Settecento o d'altro secolo a quel modo. Ma Baretti non pretendeva di fare storia. Voleva liberamente, pubblicamente, castigare e abbattere errori, eccessi, imbrogli, carte false. In più, e conseguentemente, voleva leggere a suo piacere e insegnare a leggere Dante e Ariosto, Shakespeare, Cervantes, Corneille; voleva viaggiare sicuramente, curiosamente, da un Paese all'altro, parlare e capire varie lingue, ritrovarsi ovunque uomo fra uomini. Cosi avrebbe voluto vivere Gobetti, in Italia e fuori. Ma altro ci voleva che la Frusta letteraria. Cario Dionisotti Capì che nell'Italia del dopoguerra c'erano energie nuove, ma perse la partita, oggi possiamo ripartire dalla sua sconfitta Società e a fa arici ro dre uni lla lie di nri. Cario Dionisotti; a destra, Piero Gobetti in un disegno di Paolo Genovese vivenza in Italia.