BERNARD-HENRI LEVY Da Sarajevo a Hemingway

Da Sarajevo a Intervista col filosofo: dopo il documentario sulla guerra, un film sulla vecchiaia dello scrittore LÉVY S Da Sarajevo a PARIGI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Da Sarajevo ai tristi tropici di un Hemingway senile. E da apostolo della causa bosniaca a regista. Bernard-Henri Lévy tiene subito a precisare, se non altro per scaramanzia, che il film sullo scrittore con Alain Delon è, per ora, «solo un progetto». Ma gliela si legge in viso la vogba di raccogliere la nuova sfida improvvisandosi, a quarantott'anni, cineasta vero dopo l'esordio documentaristico con Bosna. Filosofo cangiante, bestia nera del benpensantismo, attempato ma irriducibile enfant terrible, come ogni vero seduttore B. H. L.- «Béascèl», un'abbreviazione ormai sì familiare al pubblico da imporsi in tv e sui giornali - non tiene troppo a sedurre. Almeno in prima battuta. L'inseparabile camicia bianca, la casa borghese (stilosa ai limiti dello sfarzo) che guarda il boulevard Saint-Germain come quella, vicinissima, di Tahar Ben-Jelloun, le onnipresenti fotografie della moglie attrice che la popolano sono ingredienti, se non vezzi, del telegenico personaggio Lévy. Ma che parli di cinema o racconti il suo ultimo libro - Le Lys et la cenare, cronache bosmache degli ultimi quattro anni, fresco di stampa presso Grasset, cui Le Monde ha dedicato un'entusiastica recensione e il settimanale L'Evènement la copertina - il forse più celebre intellettuale francese coniuga insieme passione e autocritica, slancio e inquietudine. Sino a confessarsi, nell'intervista con La Stampa, «morbosamente attratto daM guerra;'che1 pure"ripudio»: T|Jrtà (Svolta?' Il quotidiano transalpino non ha dubbi. Siamo dinanzi a un B. H. L. Atto n, «lucido, acuto, e» - per la prima volta - «senza compiacenza». I critici inveterati sono avvertiti: dovranno cambiare refrain. La stampa francese non ne ha ancora parlato, o quasi. Eppure lei arriva dal Messico dove immagino - continuano le ricerche degli esterni. Quello su Hemingway è un film top secret? «No. Al punto che ne accenno a varie riprese ne II Giglio e la cenere. Mi piacerebbe, anzi ci tengo. E, insieme, mi fa paura: trovarsi dietro alla cinepresa non richiede solo nozioni tecniche, è un'arte. Ho messo giù il copione. E la scrittura era l'indispensabile primo passo. Ma il passo più arduo sarà girarlo. Giacché non intendo cercare qualcuno che lo faccia in vece mia». Alain Delon nei panni di Ernest Hemingway. Si è già cimentato - e da poco - con il vecchio Casanova, lasciando tuttavia perplessi critica e pubblico. Come intende convincerlo a ritentare l'esperienza? «Dico solo una cosa: insieme con Gassman, Delon è uno fra gli ultimi grandi. Non lo conosco bene, so che 3 ritiro dalla scena lo tenta. Ma rimane un blocco di mitologia vivente, una memoria fatta carne. Quando si ha lavorato con Losey, Melville, Visconti... impossibile accrescere ancora la leggenda». La affascina l'idea d'una pellicola «romanzata», o preferisce la puntigliosa ricostruzione storico-letteraria? «L'obiettivo è ritrarre nell'esilio di un Paese lontano lo scrittore celebre tormentato dalla vecchiaia in arrivo e dai dubbi. Potrebbe non essere necessariamente Hemingway: conta la situazione più del protagonista». Su «Le Point», lei ha recentemente evocato Michelangelo Antonioni e il suo tandem con Wim Wenders. E' un modello di cinematografia cui vorrebbe ispirarsi? «Antonioni sa' filmare la donna come nessun altro. Non saprei spiegarle in che modo, ma lo fa. L'estetismo non c'entra. Ho visto donne, a Sarajevo, che sembravano uscire dalle sue opere. Certo, riuscire a imitarlo sarebbe meraviglioso. Questa avventura, lo ripeto, mi appassiona profondamente». Che cosa può aggiungere il cinema a filosofia, letteratura, cronaca? Nel suo diario bosniaco, lei inquadra e ritrae con brevi pennellate che lasciano il segno Peter Handke, Yves Montand, Edouard Balladur, Margaret Thatcher, il Papa... Le manca davvero la celluloide? «Mi chiedo se non faccia "vedere oltre". La domanda è aperta: conoscerò forse la risposta tra qualche mese. O qualche anno. Certo, senza Bosna la tentazione di lanciarmi in un'impresa così ambiziosa non mi avrebbe probabilemte sfiorato. In altre parole, oggi ritengo quel lungometraggio il primo, decisivo passo verso la creazione cinematografica. In apparenza, esiste un abisso tra la penna e la cinepresa. Antonioni ne costituisce la migliore smentita: filma come se dovesse scrivere un libro. Di lui mi piace la maestrìa nell'enucleare la bellezza, ma anche quello sguardo pessimista e melanconico che posa sull'essere umano. Da fine del mondo. Per questo non mi stupisco che abbiano provato a farlo tacere». Chi? «L'afasia di Michelangelo Antonioni non è solo medica. Mi ricorda quella del tardo Baudelaire: orga¬ nizzata, direi programmata dai suoi oppositori. L'hanno voluto ridurre al silenzio. Impedirgli di parlare, cioè - nel suo caso - filmare. Chi? I critici, l'establishment in generale. Gli stessi che ora davanti all'inatteso exploit abbandonano le litanie da coro greco per intonare il panegirico. Ebbene, sono convinto che overà la forza di meravigliarci \i un nuovo miracolo. Ah, i suoi volti! Se quelli di Sarajevo me li ricordano è perché imprime loro una carica romanzesca indicibile». La senilità di Hemingway e Delon, il vegliardo Antonioni e le sue atmosfere (din de choses», Sarajevo che sembra riproporre a livello collettivo, storicizzandoli, i drammi e le incomprensioni esistenziali del regista ferrarese, malinconico come (nella descrizione che lei ne abbozza) il leader bosniaco Izetbegovic: si direbbe che nel suo dibattersi tra Storia e invenzione, verbo e immagine, Bernard-Henri Lévy abbia deciso di guardarsi - con il mondo - dinanzi allo specchio. E non chiudere gli occhi come Dorian Gray se gli rinvia tratti ripugnanti. Che cosa vede, monsieur Lévy? «Un uomo animato da intenzioni non sempre elevate e confessabili. E me lo rimprovero. Del resto come dire la verità sugli altri senza esercitare la medesima, implacabile franchezza con se stessi? Non intendo risparmiarmi. Rimpiango errori grossolani. Per esempio Taver rinunciato a presentare la "Lista Sarajevo" per le Europee, timoroso di rompere con il Sistema: fu una stupidaggine imperdonabile. Ma c'è ben altro. Quando sgatto in me il denunciatore degli orrori serbi cercando di portare alla luce l'io profondo, mi risponde un uomo che la guerra, prima d'indignare, affascina. E' una brutta scoperta, ma ho dovuto finire per accettarla. Non sono peraltro l'unico a trovarmi in condizioni simili. Mi tiene compagnia, tra gli altri, Curzio Malaparte: negli ultimi tempi Kaputt non ha abbandonato il mio comodi¬ no. Lo considero il più bel romanzo di guerra del XX secolo. Non ho quindi intenzione di flagellarmi oltremisura. Però fa male». Come lo spiega? «La pulsione di morte è il nostro substrato base. Come osservò Freud, la civiltà occidentale non fa altro che verniciare la barbarie con la biacca d'un presunto umanesimo. Non è, non sono, non siamo impermeabili al magma sottostante». Un'attrazione fatale? «Sarajevo rappresenta un gigantesco laboratorio dell'inumano nell'umano. Grazie a giornali e tv l'Europa intera ha avuto l'illusione, o comunque la possibilità, di maneggiarne le provette, i precipitati, le cartine di tornasole. Atroce. Mostri a nostra insaputa. Perché era in gioco l'inconscio dell'Occidente, la faccia nascosta, misteriosa quanto insopprimibile. I mass media hanno le loro brave responsabilità, ma attenzione a non farne gli unici capri espiatori. Gli stessi "interventi umanitari" fomentano ogni giorno una straordinaria manipolazione delle coscienze: si lascia intendere che le anime possano venir "trattate" come i corpi». Siegmund Freud, si diceva. Su Sarajevo ha regnato a lungo un suo lontano allievo. Lo psichiatra Karazdic, stratega dei serbo-bosniaci, certo non ignora come smontare e rimontare nei suoi meccanismi elementari l'anima umana. E' il doktor Mabuse degli Anni 90, o la sua professione costituisce un semplice accidente storico? «Padroneggiava la scienza di manipolare gli spiriti, questo è sicuro. Ne testimonia il modo in cui ha torturato le anime, prima che i corpi, in quella capitale planetaria del dolore che ha nome Sarajevo. Un savoir faire inarrivabile. Alternava violenza e remissione con un talento supremo. Ne parlo perché l'ho vissuto. Il silenzio irreale che seguiva i bombardamenti più feroci era - se possibile ancor più inquietante delle Tempeste d'Acciaio». Citando Ernst Jùnger lei sembra accreditare la tesi di una campagna bosniaca, con le sue trincee e l'immenso sacrificio umano, erede ideale del ' 14-' 18. Sarajevo come Verdun? «Solo in parte. La implacabile guerra di posizione è sicuramente più vicina all'esperienza bosniaca che la Blitzkrieg. Ma c'è una differenza enorme. Quando si domandava ai "poilus", le reclute francesi sopravvissute alla carneficina, come avessero fatto a resistere, rispondevano: "Non potevamo mollare un pollice della nostra terra. Ci appartiene, le siamo inchiavardati". Ho posto il medesimo quesito ai civili di Sarajevo. "Abbiamo in testa un modello di coesistanza pacifica, civile, nella diversità. E non l'abbandoneremo mai" mi dissero. L'Idea contro la logica del suolo. E' questa la Bosnia che amo». Enrico Benedetto «Il cinema forse sa "vedere oltre" Un esempio? Le donne diAntonioni» «Sono indignato dagli orrori serbi, ma sento il fascino del conflitto» Ernest Hemingway alla scrivania. Sopra Michelangelo Antonioni e Alain Delon. Nell'immagine grande, in basso, Bernard-Henri Lévy