Carlo a Sarajevo

Fermati 2 reporter Fermati 2 reporter Carlo a Sarajevo «Di fronte a queste rovine provo un grande orrore» Il principe Carlo di fronte alle rovine della biblioteca di Sarajevo SARAJEVO. Il principe Carlo ha visitato ieri Sarajevo soffermandosi di fronte alle rovine della biblioteca distrutta dalle granate serbe durante il lungo assedio della capitale bosniaca. L'erede al trono d'Inghilterra ha manifestato tutto il suo orrore: «Posso solo esprimere il mio sgomento per la deliberata distruzione di questo edificio». La biblioteca fu l'ultimo posto visitato a Sarajevo nel 1914 dall'arciduca Francesco Ferdinando prima di essere assassinato. [Ansa-Reuter] "SIGILLO" Anversa Elegante e raffinato. "SILHOUETTE" Bassetti Pratico, si infila in un attimo! "PONCHO" Gabel Grande successo di vendite! REPORTAGE UN TESTIMONE DEI CRBf&iNS LSARAJEVO A cosa peggiore, dice, non è il mitragliatore che ti spara addosso. Non è neanche il compagno che grida mentre le pallottole gli schioccano sulle ossa. Non è l'odore del sangue, né la terribile sensazione di un corpo morto sopra il tuo, che in pochi minuti diventa freddo e dopo qualche ora sembra voler trasmettere quel gelo alle tue membra e al tuo cervello. Per chi sta per essere sepolto in una fossa comune, la cosa peggiore è l'attesa. Hurem Suljic, 55 anni, dal momento in cui i serbi presero Srebrenica attese quattro giorni. Giorni in cui i vincitori promettevano, blandivano, lasciavano balenare l'idea della liberazione mentre trasferivano i prigionieri da un campo a una fabbrica, da una scuola ad una palestra e portavano fuori gli uomini dieci per volta, li depredavano di tutto, li massacravano mentre il ruggito dei Caterpillars copriva le urla. Quest'uomo dall'aria prosciugata oggi vive a Tuzla, è a Sarajevo solo per caso, ma tra breve gli toccherà volare fino all'Aia per essere nuovamente sentito come testimone dei crimini di guerra. E' uno dei pochi sopravvissuti alle fosse comuni di Srebrenica. Ascoltiamolo. 11 LUGLIO 1995. «Quando i serbi sfondarono le nostre difese, molta gente era già fuggita nei boschi. Io non ero un combattente: vedi, trascino una gamba, sono invalido civile, l'esercito non mi aveva voluto. Mia moglie Raza, mia figlia Vahida erano già fuggite verso l'accampamento dell'Orni a Podocac, cercando la protezione degli olandesi. L'altro figlio, Kadrjia, era in montagna. Quella mattina allora, quando vidi arrivare alle porte della città una jeep dell'Orni, cominciai a pensare che almeno a gente come me forse i cetnici avrebbero risparmiato la prigionia. «Venite fuori, diceva uno col megafono, non vi sarà torto un capello. Ma poi, quando i primi uscirono dal bosco, i "caschi blu" cambiarono berretti e si rivelarono per quelli che erano: militari serbi. C'era chi urlava e chi travolgeva gli altri cercando di scappare. Il tono della voce al megafono cambiò subito: "Ragruppatevi tutti: donne, bambini e vecchi vadano verso il campo di Podocac, gli uomini validi e i combattenti restino qui". Poco più tardi anche noi fummo autorizzati a muoverci in fila verso il campo dell'Orni. C'erano almeno tremila persone lì intorno. Passammo la notte all'aperto». 12 LUGLIO. «Era mattina presto quando vedemmo arrivare i primi autobus. C'era Ratko Mladic in persona: da una jeep rossa il generale dava istruzioni. Donne e bambini salivano piangendo sugli autobus, si aggrappavano ai mariti, ai padri, agli adolescenti che restavano là. Poi cominciarono a giungere anche i camion: alcuni erano militari, altri ancora (due, lo ricordo bene) erano di quelli che servono al trasporto del bestiame. Io mi trovai in un gruppo di quasi duecentocinquanta persone: ci portarono a Bratunac e ci fecero entrare tutti in una fabbrica. «Ratko Mladic arrivò anche lì: stava facendo sera, lui si affacciò nel deposito dov'eravamo stati riuniti, e con il solito megafono disse: "Restate tranquilli, non cercate di fuggire. Sarete scambiati con prigionieri serbi o mandati nella Bosnia settentrionale a combattere con il nostro alleato Fikret Abdic". Poco dopo però arrivarono dei soldati che portarono via una ventina di noi. Sentimmo delle raffiche, altre raffiche ci tennero svegli per tutta la notte». 13 LUGLIO. «Ci fecero uscire presto, quella mattina: altri camion, altri trasporti. Solo più tardi avrei capito che in quel modo cercavano di frazionare i morti, di suddividere le fosse comuni lungo un territorio poiù vasto. Da Bratunac a Karakay, in una palestra. Prima di uscire dalla fabbrica ci venne intimato di coprire i pochi metri fra il portone e i camion con la testa bassa e lo sguardo fisso in terra. Era sempre Mladic a gridare le istruzioni: "Non dovete guardarvi intorno, ci sono installazioni militari, ne va della vostra vita". «Nonostante tutto io guardai verso destra, da dove giungeva un rombo assordante. C'era una grande fossa, proprio lì, a trenta metri dalla fabbrica, e la benna di un Caterpillar stava cominciando a coprirla. Non so quanti corpi fossero lì dentro: cento, mille... A me parvero un'enormità. Rammento che quelli dello strato superiore

Luoghi citati: Inghilterra, Sarajevo