Dini: non vado al Fondo Voglio lavorare per l'ltalia

Dini: non vado al Fondo Voglio lavorare per Pltalia Dini: non vado al Fondo Voglio lavorare per Pltalia derò: la resistenza fisica apsichica di fronte allo stress». Poi,ranclude sgattaiolando via nell'aula del consiglio: «Se vuole saperne di più, legga il mio diario. Uscirà tra breve. Lì si capirà tutto di Dini...». E anche Dini, vestito di grigio come al solito, preoccupato per il timore che gli si possano leggere sulla fronte i pensieri e le parole, entra nella sala e tiene in fretta e furia l'ultimo consiglio dei suoi ministri. Poi, li invita tutti al terzo piano nel suo appartamentino per un pranzetto alla buona, leggero con un po' di pesce, molte verdurine, vinelli leggeri per una bicchierata finale del governo estinto, con i saluti rituali dell'ultimo giorno di scuola. Quando entro nel suo studio, resto colpito da un oggetto particolare: il computer che sfarfalleggia sulla console dei telefoni del presidente uscente non mostra videate di agenzie di stampa e dispacci, ma numeri in colonna. Infiniti, mutevoli, pulsanti numeretti. Ciampi lo fece istallare, Berlusconi lo fece togliere e lui lo rivolle in opera. Adesso sta ancora lì che palpita azzurrino. Forse, chissà, Antonio Maccanico non saprà che farsene e lo farà di nuovo riporre in cantina. E poi, chi può dirlo, seguirà rnagari il degolliriò, ciÒèhO de Gaulle à l'italienne, il quale lo farà rimettere sul trespolo, magari per darsi delle arie, a meno che non sia un altro gnomo della finanza o dell'economia. Di che si tratta? Dello specialissimo computer dell'agenzia Reuter sul cui schermo si seguono colonne di numeri in continua evoluzione, con i dati della borsa, delle valute, dei cambi. La stanza in cui ha lavorato Dini è rimasta più.o meno identica rispetto ai tempi di Berlusconi, il quale fece però restaurare e ammobiliare con suoi materiali, anche pregiati, le stanze destinate alla vita quotidiana. Tant'è che quando fu costretto a traslocare, dovette intervenire davvero un apposito camion. E quando arrivò Lamberto, arrivò portandosi soltanto la penna nel taschino. In un angolo, seduto su un basamento adatto a un Buddha, sta pachidermico l'enorme televisore con cui i presidenti del Consiglio seguono in bassa frequenza le conferenze stampa, le attività del Parlamento e altri eventi topici. Adesso che anche Lamberto trasloca, non deve far altro che avvitare il cappuccetto e via, salutare gli uscieri e imboccare il corridoio. Ieri sono dunque entrato nella stanza del presidente del Consiglio uscente all'ora di pranzo, per vedere se avesse già fatto le valigie. In quel momento il tosco-americano Lamberto non c'era: era al terzo piano con i suoi ministri per il pranzo d'addio (per molti) e di arrivederci forse per alcuni, quelli che resteranno anche nel governo Maccanico. Fra i sopravvissuti dovrebbe esserci proprio lui, Dini, appena un gradino più sotto del suo attuale rango, come mostra la geografia della sala grande del Consiglio dei ministri, dove il titolare della Farnesina ha il suo sedione alla destra del capo del governo, unico abilitato a possedere e usare un telefono con i fui, collegato al centralino e alla batteria del ministero dell'Interno, che collega alla svelta tutte le personalità della politica. Ora la sala del consiglio è vuota, con quella sua buffa aiuola centrale piena di piante e ciuffi di fiori un po' secchi, i suoi codici di procedura sparsi qua e là, le ventiquattro sedione un po' in disordine, l'aria di un luogo abbandonato forse in fretta. Un funzionario mi dice: lì sedeva il ministro Mancuso, che usciva sempre per ultimo perché anche quando tutti se ne erano andati, seguitava a scrivere e scrivere, perché prendeva appunti per il suo diario segreto.