«Israele? Sta diventando un Paese normale» di Mirella Serri

Intervista con Yehoshua, mentre esce il nuovo romanzo Intervista con Yehoshua, mentre esce il nuovo romanzo «Israele? Sta diventando un Paese normale» Y*\ ROMA li' allora? Bisogna di nuovo M parlare sottovoce anche Il la mattina abbassare il .Edi volume della radio e tenere la piccola sempre in braccio perché non pianga ieri quando ho telefonato a mezzogiorno mi ha detto che lui dormiva ancora». «Lui», protagonista del romanzo dello scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua, Un divorzio tardivo (che sta per uscire in Italia da Einaudi), è Yehudà Kaminka, una presenza inquietante. Fuggito dal suo Paese in America poiché la moglie ha tentato di accoltellarlo, ritorna a Tel Aviv, poi passa ad Haifa e Gerusalemme per ottenere il divorzio dalla donna chiusa in manicomio. Kaminka torna e getta scompiglio nelle famiglie dei suoi figli ormai divenuti adulti provocando un turbinio di reazioni, di sentimenti e di emozioni e non trova affatto quello che cerca: la serenità nella terra che gli ha dato i natali e la possibilità di risposarsi in America con il consenso della moglie malata e dei figli. Vive, in nove tremendi giorni tormentati da un vento gelido prima della Pasqua (in, ebraico «passaggio»), una trasformazione radicale, un «passaggio» che mette in crisi la sua identità. In Israele, il libro di Yehoshua, dalla prosa travolgente fra Faulkner e Joyce - come una valanga, che lascia senza fiato e ignora la punteggiatura, ha avuto un gran successo e ha provocato non poche reazioni: nella vicenda di Kaminka e della sua famiglia in crisi tra il «modello americano», che l'emigrato non più giovanissimo rappresenta, e quello «nazionale»^ ancorato alla religione e ai valóri più tradizionali, è stata individuata una polemica metefpr^j ^dell'attuale identità ebràica, "divisa tra diaspora e Stato nazionale. Ma il sessantenne scrittore dai capelli sale e pepe che si accalora molto mentre parla e che è venuto in Italia, a Roma, in coincidenza con la pubblicazio- ne del suo racconto, nega di aver voluto rappresentare simbolicamente l'attuale crisi dello Stato d'Israele: «Nessuna metafora. La famiglia è sempre stata molto importante per gli ebrei, sia per quelli della diaspora, per i quali ha rappresentato l'unico punto fisso di riferimento, sia per quelli che abitano in Israele, dove non viene sottovalutato il suo ruòlo primario. Oggi è proprio il contesto familiare il luogo in cui, più che in ogni altro, l'individuo rivela se stesso, i suoi limiti. Ho voluto descrivere nel dettaglio tutta una serie di esisten¬ ze e riflettere, anche, su storie di credenti che compiono con fiducia religiosa - questo è tipico degli ebrei - ogni più minuto atto della vita quotidiana». La famiglia, dunque, come salvezza e come dannazione, dove nonostante gli odi e la follia che vi sono pre¬ senti, ogni piccolo, particolare gesto della vita di tutti i giorni ha un valore emblematico, rispecchia la presenza di Dio: questo modo di raccontare nasce da una sua personale visione religiosa? «Per nulla, ma io credo che oggi possiamo ricominciare ad apprezzare le culture delle più antiche comunità ebraiche all'estero e ritrovare il valore della tradizione. Il processo di pace in cui stiamo vivendo indubbiamente ha cambiato molte cose; ci permette il recupero di abitudini del passato e ci fa intravedere che il sogno sionista di un Paese "normale" sembra sul punto di essere realizzato». In questo tragitto verso la pace cosa ha cambiato l'assassinio di Yitzhak Rabin? «Molte cose. Ha rafforzato nell'opinione pubblica il senso della necessità di battersi con più determinazione contro il terrorismo e la guerra, come finora non è ancora stato fatto. C'è stata una grande mobilitazione da parte dei giovani, le destre sono state messe ai margini. Adesso tra le tante cose che ci restano da fare bisogna trovare un modo per dare soluzione a quella che io chiamo la "psicosi del conflitto" con gli arabi, ma anche con il mondo intero». Però, proprio in queste ultime settimane, Israele sta vivendo un momento difficile per la protesta degli ebrei etiopi contro la discriminazione di cui si sentono vittime. «Non mi pare. Tutti i Paesi hanno le loro questioni interne irrisolte. Voi, per esempio, in Italia avete la mafia e oggi, quando sono arrivato in albergo in pieno centro di Róma, c'erano dei gruppi che manifestavano contro il Parlamento. Non sono affatto d'accordo con i progressisti che in Israele si battono il petto e si sentono colpevoli per non aver mai denunciato le discriminazioni. Gli ebrei etiopi a pochi anni dal loro arrivo in Israele si sentono come a casa loro». Di cosa parlerà nel suo prossimo libro? «Sto lavorando da tempo a un'opera ambientata mille anni fa che si occuperà della possibilità del dialogo tra sefarditi e askenaziti, ovvero tra gli ebrei di tradizione araba e quelli mitteleuropei. Ma intanto in Israele l'ultimo mio romanzo pubblicato è A cuore aperto, dove non si tratta né di guerra né di conflitti ma solo di amore. Insomma un vero e proprio libro da tempo di pace». Mirella Serri Tra Stato nazionale e emigrazione, un drammatico ritratto di famiglia Una famiglia di coloni israeliani a Gerusalemme. In alto, Abraham B. Yehoshua. Sotto, Rabin

Persone citate: Einaudi, Faulkner, Rabin, Yehoshua, Yitzhak Rabin