Così salveremo le nostre città di Gianni Vattimo
discussione. L'architetto lascia Casabella e lancia una sfida ai colleghi discussione. L'architetto lascia Casabella e lancia una sfida ai colleghi Così salveremo le nostre città Gregotti contro le brutture «internazionali» su I HI salverà le nostre città? I 1 il razionalismo e i rigidi I controlli di urbanisti e arI i chitetti, imiti allo slancio >L creativo e alla ricchezza degli stili locali. Con questo paradosso, cuore dell'architettura «internazionalista», Vittorio Gregotti lascia la direzione del mensile Casabella. L'ultimo numero, a giorni in edicola, è dedicato all'«internazionalismo», fenomeno dell'architettura iniziato con il neopalladianesimo (dalle piantagioni nel Sud degli Stati Uniti ai domini feudali della Russia, passando per i castelli del Bordolese), che oggi domina - e livella, dicono molti - i cantieri nelle metropoli di tutto il mondo. Di architetti «senza frontiere» è piena la storia. Villani de Honnecourt, nel xm secolo, lavorò in Ungheria; Guarino Guarini fu protagonista nel '600 a Lisbona. Ma oggi l'uniformarsi di tecnologie, materiali e stili rischia di imprigionarci in spazi anonimi e alienanti (aeroporti, supermercati, periferie). «Non luoghi», per dirla con l'antropologo francese Marc Auge. «La bandiera dell'internazionalismo», scrive Gregotti nel saggio introduttivo (ne seguono altri 14, tra cui quelli di Jean-Louis Cohen, Carlo Olmo e Bernardo Secchi), non è innalzata nel nome di un'ipotesi ideale di organizzazione alternativa del sistema sociale, ma in nome di lobbies (anche nel senso più nobile del termine) professionali, finanziarie, di potere, delle catene comunicative che ne sono strumento». Le «resistenze» però sono molte: «Nei nostri cieli privi di idee», dice ad esempio Gregotti parlando forse di certo ambientalismo, «si moltiplicano gli ideali fantasmatici di gruppi sociali sempre più piccoli, che vogliono esorcizzare il terrore per runiformità della società di massa». Contro le forme volgari e aggressive dell'internazionalismo Gregotti propone un «internazionalismo critico», capace di salvare le identità locali senza pèrdere né slancio creativo né le logiche normative necessarie (norme an- tincendio e proposte delle associazioni di consumatori, ad esempio). Ne potrebbe essere un esempio il centro per la cultura Kanak che Renzo Piano sta realizzando in Nuova Caledonia : «Un progetto di frontiera - scrive Piano - fatto di antropologia, geografia e cultura locale». Una sfida che impone di non cadere «nel pittoresco e nel vuoto simbolismo». Una sfida temeraria? «La bandiera internazionale - sottolinea Carlo Olmo - è diventata negli ultimi 50 anni un drap rouge, sinonimo di omologazione e sradicamento». Ma l'opposizione «regionalista» spesso è solo un modo diverso per far circolare modelli culturali che rimangono internazionali». Come le architetture di Gabetti e Isola, scrive Olmo. Mario Fazio, tra i fondatori di «Italia Nostra», riconosce lo sforzo di Gregotti per le città vivibili: «I nostri architetti, terrorizzati dal vernacolo, dalla paura di apparire provinciali, hanno prodotto la marmellata dello "pseudomoderno". Le nostre città, salvo casi individuali e i pochi squilli dei maestri, sono state fatte da migliaia di architetti sconosciuti che hanno ripetuto modelli obbrobriosi. Cos'hanno insegnato i maestri ai discepoli? La verità è che gli architetti sono sempre molto riluttanti a scendere dal discorso astratto. Dietro alla forbitezza di linguaggio, alla ricchezza delle idee, non ci sono soluzioni concrete per il cittadino». Cario Grande Un'immagine di architettura «alienante» In alto a destra, Vittorio Gregotti. L'architetto lascia la direzione del mensile «Casabella». Sotto, Gianni Vattimo
Luoghi citati: Italia, Lisbona, Nuova Caledonia, Russia, Stati Uniti, Ungheria
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