IL CORAZZIERE DI RASCEL ULTIMO SURREALISTA ALL'ITALIANA di Gian Paolo OrmezzanoOreste Del Buono

Amici Maestri Amici Maestri IL CORAZZIERE DI RASCEL ULTIMO SURREALISTA ALL'ITALIANA Tutto nacque dalle «scemenze» del Bertoldo e del Marc'Aurelio Gian Paolo Ormezzano UN signorotto vezzoso diceva a un altro dotato di una terribile chioma: «Inutilmente, o Barone, essendovi fatto a dismisura crescere la barba e i capelli, vi ostinate a rimanere per ore e ore immobile in aperta campagna, incurante della pioggia e del vento: si vede benissimo che siete un uomo e non un albero». La vignetta di Mosca è datata Marc'Aurelio, 1935. All'identica data dello stesso autore sullo stesso bisettimanale umoristico, un nugolo di signoretti alati scendeva dal cielo, tirandosi dietro un recalcitrante cagnolino e scambiando chiacchiere del tipo «Lei si è portato il paletot?» «Capirà a questa altezza... e poi io ci devo stare attento perché sono morto di polmonite». E ancora, due incilindrati meditavano davanti a un sole vibrante sull'economia dell'astro e il più alto proponeva: «Diamo due soldi al sole che s'è ridotto a spaccare le pietre, poverino», il disegno era sempre di Mosca e la battuta pure. La scemenza per la scemenza sovvertiva ogni realtà. Passato, a peso d'oro, secondo quanto si favoleggiava all'epoca al Bertoldo, Mosca non desisteva dai suoi svolazzi e lazzi. Uno stuolo di ometti alati biancovestiti, ma neramente incilindrati, andando su, protestava con un tangheretto in nero con il cappello in mano. «E lei non viene con noi?». La risposta, datata Bertoldo 1936, era serena: «Io non sono mica morto: ho accompagnato fin qui il mio amato nonno, e adesso me ne ritorno a casa». All'identica data, dello stesso autore, sullo stesso giornale figurava un'orgogliosa lezione sull'amore di un ispirato estremamente baffuto a un compunto ascoltatore. «Amore, amore, di quali cose tu non rendi capaci gli uomini! Guardate me, ad esempio, che giro con il baffo a forma di reggipetto, detto baffo della concupiscenza, a tenace e imperituro ricordo di colei che, fremente di desiderio, mi si concesse inebriata: "Follia, follia!" gridando». E, ancora, una grande vignetta, anzi un vero e proprio vignettone riproduceva una quantità di frequentatori d'una serata d'arte dedicata al bel canto, tutti pelosissimi di barba e baffi, salvo il soprano e il tenore tra cui traspare un improvviso ammiccamento all'umano, troppo umano. Un complimentoso ascoltatore, infatti, si rivolgeva al munifico ospite, implorando: «Io vi prego, d'intervenire, Marchese, e di fare intendere a questi severi cultori del bel canto che mi lanciano occhiate di biasimo e m'impediscono di uscire, che se sono già quattro volte che tento di farlo, non è già per protesta contro gli illustri artisti ch'io, anzi; stimo e venero, reputando l'uno superiore al cigno e l'altro all'usignuolo, ma perché devo andare al gabinetto e non ne posso più...». ii b p pGiovanni Mosca era, probabilmente, il più dolcemente cattivo tra gli umoristi del Marc'Aurelio e poi del Bertoldo, perché era il più fine d'intelligenza e il più pessimista sulla natura umana, compresa la sua. Fu lui l'irresistibile iniziatore di tutto, e da lui, in fondo, tutti sono stati ispirati. Scemenze, sì, ma con il lieve dubbio di non essere solo scemenze, a rifletterci appena un poco. Così, Macario, Rascel e gli altri interpreti del teatro di varietà e del cinema comico italiano sono sue creature, anche se il suo nome non figura nell'elenco degli sceneggiatori che Francesco Savio nell'affascinante repertorio Ma l'amore no (Sonzogno, 1975) attribuisce a un Imputato alzatevi! oltre all'autore del soggetto ovvero Anacleto Francini detto «Bel Ami», a Vittorio Metz e a Mario Mattoli che del film era anche regista. A parte, nella stessa voce di Ma l'amore no, Francesco Salvio registra, infatti, la collaborazione dei gagmen (fatto nuovo per l'Italia) ovvero di Benedetto Brancacci, di Ugo Chiarelli, di Vito De Bellis, direttore del Marc'Aurelio, di Giovannino Guareschi, Carlo Manzoni, Marcello Marchesi, Vincenzo Rovi, Massimo Simili. Ma la discendenza è chiara. Tutti sono stati più o meno contagiati dalle suggestioni di Mosca. Quanto aidue giornali umoristici, è chiara la differenza tra un Bertoldo «stralunato, soave, vo¬ lutamente sciroccato», come scrive Adolfo Chiesa ne La satira politica in Italia (Laterza, 1990) e un Marc'Aurelio «disarmonico, duro, come gravato dal compito di dover spalleggiare la politica del regime. Ma un raffronto tra i due giornali non è comunque possibile, tanto incidono le diversità strutturali, logistiche. La redazione del Marc'Aurelio lavora a due passi da Palazzo Venezia, ha addosso gli occhi del duce e dei gerarchi, è spalleggiata e deve fare da spalla a un pubblico di lettori cresciuto, nel migliore dei casi, recitando Trilussa e Pascarella, ripetendo all'infinito certe battute di Petrolini, ascoltando alla radio le poesie di Checco Durante o i primi sketches dialettali di Aldo Fabrizi, fra osterie fuori porta, feste di quartiere, partite al Testacelo e "fojette a 'Ili Castelli". E poi a Roma c'è spesso il sole (anche d'inverno), le donne sono calde e sguaiate (secondo i luoghi comuni della pubblicistica cu allora), nei Ministeri si sonnecchia e, quando è possibile, si rubacchia, nelle case si può di linguaggio e di atteggiamento che s'estendeva a tutte le città (o almeno nel Nord e al Centro) per cui i lettori del Bertoldo si riconoscevano subito tra loro appena scambiavano due battute. Anche adesso riconosco tracce del Bertoldo impalpabili, ma indelebili, nel modo di esprimersi di persone della mia generazione, siano essi anche letterati sofisticati o giornalisti con decenni di mestiere sulle spalle...». La differenza tra le due testate umoristiche sta soprattutto nella differenza dei pubblici, non in quella dei collaboratori. Il pubblico del Bertoldo era composto in massima parte da studenti, dà giovani insomma, mentre quello del Marc'Aurelio era più ampio e comprendeva anche gli uomini arrivati alla maturità. Il pubblico del Bertoldo non avrebbe mai superato numericamente il pubblico del Marc'Aurelio. Ma, per quel che riguarda i collaboratori, in gran parte erano gli stessi. A cominciare appunto dai due capicorrente, Giovanni Mosca e Vitto- tori di tutta Italia, facendoli convergere a Roma e realizzò una straordinaria fusione delle due testate umoristiche. Del resto, se le cosiddette «donnine» di Mameli Barbara per il Marc'Aurelio si presentavano come monumenti di marmo e quelle disegnate da Walter Molino per il Bertoldo apparivano più nervose e flessuose, i testi non sempre divergevano. Al Marc'Aurelio, non a caso, Mosca e Metz avevano lavorato accanto ad Anton Germano Rossi, l'autore di «contronovelle» folgoranti come: «"Aiuto! Affogo!" gridò il bagnante con il costume a righe al bagnante col porro sulla natica che accorreva. "Scherza o dice davvero?!" domandò un po' titubante e un po' severamente il bagnante col porro sulla natica. "Parola d'onore" gridò il bagnante con il costume a righe mettendosi una mano sul petto e facendo sforzi terribili per rimanere a galla, "Poi, quando dico una cosa, voglio essere creduto..." aggiunse subito dopo, seccatissimo, scomparendo sott'acqua». Mar- Renato Rascel, con elmo e divisa del «Corazziere» trascorrere un'estate intera, ascoltando la radio dell'Eiar con i piedi a mollo in una tinozza. «Aria diversa a Milano dove Bertoldo è nelle mani di un manager-editore che pretende dai suoi redattori ogni mattina la firma del cartellino (che poi essi regolarmente non firmano) e dove il pubblico dei lettori è culturalmente più smaliziato, frequenta spettacoli teatrali con Armando Falconi, Dina Galli ed Elsa Merlini, ha alle spalle una "civiltà dell'ordine e del lavoro" che i romani forse conoscono ma poco apprezzano. Così Bertoldo va per la sua strada senza fare il verso a nessuno, creando, anzi, una maniera, uno stile...». «Bertoldo usciva a Milano», ha scritto su Repubblica in data 6 marzo 1984 Italo Calvino, «ed era un prodotto riuscito della nascente industria culturale milanese, puntando su una linea di stilizzazione coerente e inconfondibile, sulla modernità e rifinitura e leggerezza. L'umorismo di Mosca e Metz, trasferendosi da Roma a Milano, si era come scorporato, s'era fatto più filiforme e stralunato: nasceva così in quell'Italia in cui i gusci municipali e regionali erano tanto duri da rompere, un fenomeno Disemprla rio Metz che si erano trasferiti da Roma a Milano. Metz non resistette al clima atmosferico e umorale di Milano e se ne tornò presto a Roma, dove, pur restando il condirettore del Bertoldo, si dedicò con grande energia e intensità alla causa cinematografica, firmando con o senza Marcello Marchesi che l'aveva seguito a Roma soggetti e sceneggiature per i film del torrenziale Mario Mattoli, uomo di teatro e produttore, regi- Diceva Fattore: «Io, la satira, l'ho sempre fatta sui miti: mai sulla politica la ritengo una cosa troppo seria» sta cinematografico, gestore di ristoranti e organizzatore di feste e, contribuendo con la genialità delle sue gag schizoidi alla carriera di attori comici come Macario {Imputato alzatevi! 1939; Lo vedi come sei... Lo vedi come sei! 1939; Il pirata sono io 1940; Non me lo dire 1940; Adamo ed Eva, 1949) o come Totò (Totò al Giro d'Italia 1948; rotò Tarzan 1950; Totò sceicco 1950; Totò terzo uomo 1951; Sua eccellenza si fermò a mangiare 1961) e così via. Il cinema rimescolò interpreti e suggeri- l'ho politica ria» c'Aurelio, 1935. E nel Marc'Aurelio 1936 Cesare Zavattini riempiva la sua rubrica «Cinquanta righe» di un «Ho finito quel mio grosso libro contro gli stuzzicadenti. Trecento pagine contro gli stuzzicadenti. Ma non basta: io spenderò il resto della mia vita per far scomparire questa orribile usanza. Vale la pena, direte voi, di consumare una bella esistenza per una faccenda di così poco conto? Vale la pena. E se ciascuno di noi si prendesse la cura di eliminare qualche sconcezza, qualche idea sbagliata, ma una sola per persona, che meravigliosi risultati si otterrebbero! Pensate: in una città di 1.000.000 di abinel corso di una generasi eliminerebbero 1.000.000 circa di inconvenienti gravi e leggeri...». Scemenze su scemenze, sissignore Tra giornali umoristici, avanspettacolo e cinema comico si era formato un clima in cui Rascel poteva anche aspirare concretamente a fare il corazziere: «Mamma / ti ricordi quando ero piccoletto / che mi ci voleva la scaletta pe' anda' a letto / come so' cresciuto, mamma mia, devi vedere / figurati che faccio il corazziere... /... ve- tanti, zione tanti, zione dano... / dicon che di crescere non mi dovrò fermare / dicono che posso ancor più alto diventare/ e perciò la sera quando c'è la ritirata / me danno l'acqua come all'insalata / ... arrivedano... vado pure indietro...». «Io così nano che mi presento con l'elmo e la divisa, cantando» avrebbe ricordato in Festival dell'8 maggio 1954. «Un successo strepitoso, la gente si sbellicava, chiedeva i bis, i tris, insisteva, insisteva, e io non avendo niente di alternativo, mi inventai lì per lì il discorso dei cadetti: "Eravamo a Caianello che facevamo i cadetti quando ai va uno che mi dice: 'Scusino, loro fanno i cadetti?' 'Sì' 'No' allora me ne faccia due". Io i miei discorsi li ho sempre inventati in scena... M'è capitato lo stesso anche con Napoleone quando improvvisai: "Mi sposto dal Manzanarre al Reno. E mo' co' sto Reno spostato, un dolore, ma un dolore...". Io, la satira, l'ho sempre fatta sui miti: sulla politica e sugli uomini di Stato mai, la politica la ritengo una cosa troppo seria, io sono socialista, mio nonno era socialista, mio padre era socialista, è vero che ho lavorato tutta la vita, e àncora sto qua a lavorare e non sono miliardario. Ma sulla scena il dovere mio è diverti' il pubblico. E per divertirlo che faccio: gli leggo Gramsci? Eh, no: il comizio non spetta a me, il pubblico non è che mostra la tessera, per entrare: paga. E ha pure diritto di dirmi che parla meglio Berlinguer...». Rascel è l'ultimo attore del cosiddetto «surrealismo all'italiana». A un certo punto sarà lui stesso ad abbandonarne la pratica come per conservarlo meglio nel ricordo. Le sue confidenze meritano qualche attenzione: «Prenderli in giro garbatamente, è ovvio» afferma riferendosi ai politici nell'intervista già citata. «Io sono sempre rimasto sul garbato, la satira del corazziere, quest'omino piccolissimo che sul suo dramma dice: "Quando andiamo appresso a una vettura / dobbiamo essere tutti alti di statura / perciò io cammino tutto dritto appresso al cocchio / e i miei compagni marciano in ginocchio", è di un garbo incredibile, vero è che i corazzieri mi adorano...». Se dovessi indicare le macchiette più significative dell'abusivo «surrealismo all'italiana», non potrei non cominciare dal mezzocorazziere di Renato Rascel, ma subito dopo, mi pare dovrei citare il tetragono signor Veneranda, creato per il Bertoldo dal soave Carletto Manzoni: «Il signor Veneranda salì in treno si sedette accanto al finestrino di fronte a una signora. "Che tempaccio" disse la signora al signor Veneranda indicando fuori con un gesto della mano. "Come?" chiese il signor Veneranda. "Ho detto che tempaccio" e fece ancora il gesto con la mano, indicando fuori dal finestrino. Pioveva. Il signor Veneranda guardò prima la signora, poi fuori, poi guardò ancora la signora. "Non capisco" disse, "che cosa vuol significare". "Ma" balbettò la signora; "ma che brutto tempo!". "Lei scherza" disse il signor Veneranda "questo qui è vetro. E' vetro bello e buono, non mi venga a raccontare delle storie". Il signor Veneranda batté con le nocche delle dita sul vetro del finestrino. "Sente? Vetro bello e grosso. Altro che brutto tempo". "Come, come?" fece la signora confusa "Non capisco". "Ma sa che ci vuole tutta?". Guardò la signora poi guardò un signore che gli sedeva accanto, gli strizzò l'occhio e gli diede nel gomito: "E' pazza" disse a bassa voce e aggiunse forte rivolgendosi alla signora "Però, sa, forse non ha mica torto. Dica, dica. Vuole che tiri giù il brutto tempo?" Il Veneranda fece l'atto di alzarsi e di aprire il finestrino. "Oh... ma..." balbettò la signora. "Niente, niente" s'affrettò a dire il signor Veneranda, "lasciamo pure così. Dunque, diceva, che brutto tempo eh? Sì, proprio, ci sono anche quelli colorati, sono molto più belli i brutti tempi colorati. Ci sono i brutti tempi del Duomo istoriati, di grande valore. Non li ha mai visti? Quelli sì...". Guardò ancora il vicino, strizzò l'occhio: "Questi pazzi bisogna assecondarli". Poi s'immerse nella lettura del giornale». Oreste del Buono