LA MIA MUSA ACHMATOVA

LA MIA MUSA ACHMATOVA LA MIA MUSA ACHMATOVA Ricordi inediti di Brodskij OGNI incontro con Anna Achmatova si trasformava per me in una forte emozione. Succede quando senti fisicamente che hai a che fare con una persona migliore di te. Molto migliore. Con una persona che con una intonazione ti trasfigura. E la Achmatova con il solo tono della voce o con un movimento della testa ti trasformava in homo sapiens. Nulla di simile mi è capitato prima e, credo, dopo. Può darsi che fosse perché allora ero giovane. Gli stadi dello sviluppo non si ripetono». Josif Brodskij, il grande poeta russo morto domenica scorsa ha frequentato, con vari intervalli, dal 1962 al 1966 la , poetessa Anna Achmatova. Ne è stato in qualche modo allievo, anche se, a ragione, tutti oggi indicano in Osip Mandel'stam il suo grande maestro poetico. I ricordi di quegli incontri, le visite, le intere giornate passate con Achmatova nella dacia di Komarovo, vicino a Leningrado, sono fìssati in una conversazione di Brodskij con il giornalista Solomon Volkov (autore di una famosa biografia-intervista con Shostakovic) pubblicata nel 1992 come supplemento letterario alla Nezavisimaja Gazeta di Mosca. Ne esce il ritratto di una Achmatova privata, tra grande poesia e piccoli fatti quotidiani. Brodskij (che ha lasciato un'ultima raccolta di saggi, One grìef and reason in uscita negli Stati Uniti, già in traduzione da Adelphi, n.d.r.) frequentava la Achmatova in compagnia di altri giovani poeti, fra questi Rejn e Najman, un gruppo che amava ricollegarsi alla pleiade di poeti sorti intorno a Puskm nel primo 800 e che la Achmatova soleva definire «11 coro magico». «Avevo ventidue anni quando per la prima volta incontrai la Achmatova a Komarovo - ricorda Brodskij - presto divenne una consuetudine andarla a trovare e un inverno addirittura affittai là una dacia. Così la vedevo ogni giorno. Sedevamo sulla veranda, dove avvenivano le nostre conversazioni, i pranzi, le cene. Una volta all'improvviso la Achmatova mi dice: "Davvero, Josif, non capisco come vi possano piacere i miei versi". Io naturalmente negai, ma in un certo modo aveva ragione. Sino a quando non l'avevo incontrata io leggevo poco i suoi versi». Erano soprattutto le poesie di inizio secolo quelle che Brodskij, come tutti i russi, poteva conoscere. Ben diverso sarebbe stato il giudizio una volta incontrati «Requiem» o «Poema senza eroe» dove la Achmatova descrive, nel primo, la repressione staliniana e il dolore per il figlio Lev condannato al lager, nel secondo, la nostalgia per il mondo intellettuale e mondano della Pietroburgo del primo 900. Brodl'al'aml «Me lo leggeva molte volte lei stessa mentre lo componeva , il "Poema senza eroe" - ricorda Brodskij a Volkov -. E mi chiedeva ogni volta se andava bene. Scriveva e riscriveva continuamente. Quando lo lessi nella sua prima versione, provai una fortissima emozione». Dama al centro della colta mondanità della capitale nel primo 900, passata poi attraverso la fame della guena civile, sopravvissuta agli anni dello stalinismo, costretta al silenzio ed esiliata in patria nel dopoguerra, Anna Achmatova verso la fine della sua vita era una donna piena di ironia che non disdegnava la sera un bicchierino di vodka: Brodskij. In allo laAclimattwa nel '64 con Ungaretti II primo incontro a 22 anni: l'amore per la poesia e la vodka l'amicizia con. il giovane Pasternak le visite del «genio» Stravinskij «Duecento grammi - precisa Brodskij -. Vino non ne beveva, come me. La vodka migliora e dilata la circolazione del sangue. Anna Achmatova era malata di cuore. Allora aveva già avuto due infarti. Poi ci sarebbe stato il terzo. Anna Andreevna beveva in modo ammirevole. Se c'è qualcuno che sapeva bere quelli erano la Achmatova e Auden. Ricordo quell'inverno che ho passato a Komarovo. Ogni sera spediva me o qualcun altro a cercare una bottiglia. Naturalmente c'erano intorno a lei persone che non sopportavano tutto questo... La bottiglia scompariva... Dopo che se ne era andato chi non beveva, la vodka riappariva da sotto al tavolo. Di solito la bottiglia stava accanto al calorifero. E Anna Andreevna pronunciava sempre, più o meno, la stessa frase: "Si è riscaldata"». Achmatova e la musica. Brodskij ricorda un episodio: «Spesso parlavamo di Stravinskij e ascoltavamo garetti ni: dka ernak skij una incisione sovietica pirata di "Sinfonia di Salmi". Nel 1962 Stravinskij fece un viaggio in Urss. In quel momento ero a Mosca. E in taxi lungo la strada che mi conduceva dalla Achmatova vidi Stravinskij, sua moglie Vera Arturovna e Robert Kraft: uscivano dal Metropoi e salivano in macchina. Sapevo che il giorno prima gli Stravinskij avevano fatto visita ad Anna Andreevna. E, arrivando da lei, dissi: "Indovinate chi ho appena visto per strada: Stravinskij!" e incominciai a descriverlo: piccolo, ingobbito, magnifico cappello. Si può dire, scherzai, che di Stravinskij è rimasto soltanto il naso. "Sì, aggiunse Anna Andreevna, e il genio"». Achmatova e il figlio. Tornato dal lager Lev Nikolaevic Gumiliov (nato dal primo matrimonio della Achmatova, con il poeta Nikolaj Gumiliov; n.d.r.), per il quale la poetessa aveva scritto «Requiem», instaurò un rapporto difficile e conflittuale con la madre. Racconta Brodskij: «E' vero che lui la rimproverava. Le disse una frase che la fece soffrire tantissimo. Penso che questa frase sia stata in qualche modo la causa del suo infarto. Non è una citazione alla lettera, ma il senso delle parole di Gumiliov era questo: "Per te sarebbe stato anche meglio se fossi morto in lager". E intendeva di re "per te come poeta"». Achmatova e Pasternak: «Erano molto vicini, molto amici. Fra l'altro Pasternak due volte le propose di sposarla. Ma era una proposta che avveniva mentre era già sposato. ... E poi Pasternak era molto più basso. E più giovane». Arriva il terzo infarto. Due settimane dopo essere stata dimessa la poetessa muore. Dopo la morte i maneggi per la sepoltura. Le autorità di Leningrado tergiversano, nessuno si decide a trovare un cimitero dove seppellirla. Brodskij finalmente lo trova: è il cimitero di Komarovo: «Il corpo della Achmatova era già nella cattedrale di San Nicola, era già incominciata la funzione funebre ed io ero ancora nel cimitero di Komarovo senza sapere se l'avrebbero sepolta lì oppure no. Non appena ci diedero il permesso, regalata una bottiglia ad ogni becchino, corremmo alla macchina e ci lanciammo verso Leningrado. Arrivammo che la cerimonia funebre era ancora in corso. Intorno alla chiesa c'erano cordoni di milizia. Quindi portarono il feretro all'Unione degli Scrittori per i funerali civili. C'è chi poi ha criticato la scelta di Komarovo, dicendo che non è terra russa, ma finlandese. Ma credo proprio che la Russia non renderà mai Komarovo alla Finlandia». Sergio Trombetta COME nasce e come muore un'amicizia tra scrittori. «Egregio Signore, mi permetta di esprimerle tutta la mia ammirazione per il suo libro Le stagioni che - con mia grande vergogna - leggo solo ora. Io sono di Vicenza». Il signore tanto rispettosamente appellato è lo scrittore cinquantanovenne Giovanni Comisso. Il giovanotto vicentino che si presenta con tanto rigore formale (ma che sbaglia il titolo del libro di Comisso da lui citato che è Le mie stagioni) nella lettera datata 24 marzo 1954 è il ventiquattrenne Goffredo Parise che ha pubblicato da poco ma con gran successo II prete bello. Nasce così un singolare sodalizio la cui testimonianza è affidata adesso alle lettere, fino ad oggi inedite, di Parise al narratore trevigiano (le risposte di Comisso sono andate perdute) che ora escono per le Edizioni del Bradipo accompagnate da splendidi disegni ài Giosetta Fioroni, con prefazione a cura di Luigi Urettini (pp. 91). Il più giovane scrittore ambisce collocarsi sotto l'ala del più maturo romanziere che all'epoca è visto come il nume tutelare degli scrittori veneti. Parise vorrebbe ricalcare le orme del maestro che ammira per il suo stile da poeta - come lui stesso lo definisce - «invaso dalla pazzia dell'arte». Comisso accetta senza troppe remore il ruolo di papà amoroso e protettivo. L'autore de II prete bello, che a metà degli Anni 50 lavorava come revisore di manoscritti presso la Garzanti, aveva scoperto in casa editrice il libro di Comisso Le mie stagioni uscito tre anni prima. Lo scrittore trevigiano, a sua volta, si era infiammato di entusiasmo per questa giovane promessa della letteratura e lo aveva comunicato addirittura a Prezzolini a New York. Il veterano delle lettere accettò di fare da padrino e da sponsor a Parise, al convegno degli scrittori di San Pellegrino, consacrandolo nel solco della «tradizione veneta che va da Carlo Goldoni a Casanova, Foscolo, Nievo, Fogazzaro fino ai contemporanei Piovene, Quarantotti Gambini, Elio Bartolini e Giuseppe Berto». I due veneti si sentono uniti da una particolare solidarietà nel conflittuale clima della metà degli Anni 50 e la loro campanilistica «lobby» li aiuta a conquistare postazioni e a tessere strategie. Parise chiede a Comisso di raccomandarlo per una collaborazione alla Stampa, perché le 30 mila lire che guadagna alla Garzanti non gli bastano per vivere. Lui stesso appoggia la candidatura dell'amico scrittore al Premio Strega del '55 che Comisso vince con il libro di racconti Un gatto attraversa la strada. Uniti i due narratori lo sono anche in alcuni aspri giudizi sugli amici comuni, per esempio Pier Paolo Pasolini: «Hai fatto bene a fare la predica a Pasolini, forse è un uomo di talento vero, tuttavia quello che ha scritto finora non lo conferma affatto, anzi fa sospettare in lui un buon osservatore, un buon sgobbone, un professore di matematica, pedagogo. Ha del cuore ma non ha fantasia, mi pare». Qualche volta dal capoluogo lombardo Parise rimpiange «il cielo nordico del Veneto». A Milano, che «con la sua noia impiegatizia e tramviaria», come spiega in un altra missiva, gli inaridisce la creatività, Parise scrive il romanzo II padrone. E poi decide di passare da quel luogo che «aveva soffocato la mia fantasia», in questa «Roma di Papi e topi», come annota nel 1961. All'inizio del suo soggiorno nella capitale, Parise non si trattiene con i termini dispregiativi nei confronti della «ghenga letteraria» romana «sporca e ignobile quanto non te lo puoi nemmeno immaginare. Le lingue in bocca non si contano ed è sorto quasi un uso che chiamerò di pseudo-omosessualità utilitaristico intellettuale». Assicura lo scrittore rimasto in provincia di essersi gettato nella mischia capitolina «perché avevo proprio bisogno di entrare in un bel calderone». Però delle mafie e mafiette romane assicura di fare un uso solo strumentale: «Mi dispiace che tu possa pensare che io mi immischio nella minestra. Ci son dentro, guardo, piglio quattrini se posso, e scompaio da una fessura di finestra come un ectoplasma». L'ectoplasma Goffredo si inserisce però rapidamente negli ambienti culturali e mondani della capitale e si innamora an¬ che dell'aria caotica ma innovativa, ricca di iniziative e di idee che vi si respira. Diventa intimo di Moravia, Elsa Morante, La Capria e Gadda. Collabora come sceneggiatore con i registi Bolognini e Ferreri. Frequenta i giovani pittori d'avanguardia come Giosetta Fioroni, Mario Schifano, Tano Festa e Franco Angeli, cioè quella che verrà definita «la scuola di piazza del Popolo». Le sue critiche al mondo romano si vanno facendo più blande: «Quando vieni a Roma? Ho voglia di riabbracciarti anche perché in questi ultimi tempi ho fatto una lite per te con uno dei soliti meschini, scribacchini, cavolfiori senza fiore». Il sodalizio «veneto» perde la sua ragion d'essere e si scioglie come neve al sole. Immerso nella magica atmosfera di Roma, Parise racconta: «Guardo le nuvole che passano notturne sopra le cupole di questa città di Aladino, rapide e gonfie quasi di sangue, con un leggero ma costante fruscio come di marina. Vivo insomma intensamente ancora i giovani anni che mi re- Goffi* in:ur di dose fast a Coniti esconàdi del\ rivivi: marinuzzi maestro d'opera Nobiltà (e miserie) del direttore d'orchestra NON ci vuole più di un minuto di ascolto della registrazione (anche in versione ed) de La forza del destino diretta da Gino Marinuzzi nel 1941 per accorgersi che si tratta di un maestro non solo di mano sicurissima, ma anche di carattere forte, di comunicativa ancora più forte; un direttore che s'immerge nella musica, che ha idee e che è in grado di realizzarle; un direttore sano, che vuole fare musica e non mettere in mostra la propria genialità, o almeno non come scopo principale. Ma nonostante la sua carriera di prim'ordine, Marinuzzi è stato sfortunato con la posterità. Il maestro siciliano, nato a Palermo nel 1882, figlio di un noto avvocato e deputato parlamentare, e morto a Milano nel 1945, non lasciò molte testimonianze sonore della sua operosissima vita. Fu anche compositore raffinato e stimato, ma le sue composizioni non sono state longeve. E poiché, tra le tante opere di compositori della propria ge nerazione, compresi Pizzetti, Respighi e Malipiero, dirette da lui in «prima assoluta», soltanto «La rondine» di Puccini (1917) è ancora in repertorio, il nome di Marinuzzi non è rimasto indissolubil¬ mente legato a nessun «grande» della musica. Di particolare valore, quindi, è il nuovo volume di carteggio marinuzziano, preparato con amorevole cura dalla figlia del maestro Lia Pierotti Cei Marinuzzi, già autrice di una biografia di suo padre, aiutata in questa occasione da Giorgio e Valeria Gualerzi per la parte scientifica {Tema con Variazioni. Epistolario artistico di un grande direttore d'orchestra, Mondadori, pp. 1013, L. 140.000). E' apprezzabile non solo per ciò che racconta della vita artistica e privata del protagonista, ma anche come finestra sul teatro lirico italiano della prima metà di questo secolo, quando l'opera era un organismo vivo e non ancora una galleria di capolavori del passato. In una delle prime lettere, Marinuzzi, ventiquattrenne, parla de «Il franco cacciatore» di Weber, che ha appena visto alla Scala: è entusiasta del celebre e originalissimo finale del secondo atto, ma, dice: «Nel resto, tolto alcune arie e i cori, l'opera è vecchia». Ed è proprio quella parola «vecchia» che colpisce. Oggi un'opera che non piace si descriverebbe come «noiosa», magari, o in altra maniera, ma mai «vecchia», perché quasi tutte le opere che si rappresentano sono vecchie, ed ormai persino le ultimissime opere italiane che ancora fanno parte del grande repertorio popolare si stanno avvicinando all'età che «Il franco cacciatore» (1821) aveva quando Marinuzzi scrisse il suo commento, nel 1906. Marinuzzi, dunque, operava in un mondo in cui la gente accorreva a sentire e vedere le novità ed era un po' restia nei confronti dei pezzi d'antiquariato, per cui leggere queste lettere vuol dire rivisitare un ambiente in cui i protagonisti furono non solo gli interpreti ma anche e soprattutto i compositori e le grandi case editrici. Massenet, Puccini, Richard Strauss, Mascagni sono presenze vive nel carteggio, come anche Tito Ricordi e Edoardo Sonzogno, per non parlare del Gotha dei cantanti e direttori d'orchestra, italiani e non, di un'epoca straordinariamente fortunata in quel senso. Per forza delle cose, moltissime di queste lettere, che insieme fanno un fedele spaccato di vita teatrale, si occupano dei giochi di politica spicciola che hanno sempre fatto parte dell'ambiente e che allora erano semmai ancora più presenti di oggi. E' giusto che le lamentele e le rivendicazioni di Marinuzzi (peraltro relativamente pacate, se si pensa a quelle di certi suoi colleghi) trovino il loro posto nel libro, ma non rallegrano, come non rallegra il rifiuto di riflettere sulla si¬ tuazione politico-morale italiana ed europea negli Anni 20 e 30 sotto qualsiasi aspetto tranne quello pratico. Il regime vuole che tu diriga per il Fuhrer, in visita a Roma nel 1938? E allora tu lo fai, magari senza entusiasmo (perché il programma è un «polpettone», non perché ciò che Hitler rappresentava era già chiarissimo) ma neanche cercando di sottrarti dall'impegno. Ma il teatro lirico è fatto anche di miserie, non soltanto di glorie, e il carteggio lo rappresenta fedelmente. Harvey Sachs