il caso. Il nostro Paese rifiuta la moda del politically correct Il trionfo dello «scorretto» di Mirella Serri

il caso. Il nostro Paese rifiuta la moda del politicallycorrect il caso. Il nostro Paese rifiuta la moda del politicallycorrect Il trionfo dello «scorretto» L Italia è una patria di sfacciati? jTI OSSESSIONE del lin/ guaggio «corretto». Non si chiamano più neri ma afroamericani o, ancora più «correttamente», «membri della diaspora africana». Quando si scrive «human» o «humanity» si sottolineano in neretto le tre fatidiche lettere «man», per indicare il perenne occultamento linguistico della donna. Gran parte della popolazione istruita degli Usa trema al solo pensiero di dire «inabile» in pubblico al posto dell'eufemismo «differentemente abile». Una maledizione segna le parole: una spada di Damocle pende sul capo di milioni di persone colte, di intellettuali e giornalisti d'America, pronta ad abbattersi sulla loro ignavia lessicale. Guai a sbagliare su un'espressione, si è irrimediabilmente fottuti nella carriera e nei rapporti sociali. E in Italia? Come ci comportiamo, linguisticamente parlando, con le minoranze, con gli immigrati, con le donne, con i gay? Sta per piombare anche da noi, sull'esempio Usa, il ciclone del «politically correct»? 0 ci lascia indenni? «Che fortuna, una schiavitù in meno», se il tornado ci evita: è quanto potrebbe dire, tirando un sospiro di sollievo, il docente di filosofia morale Flavio Baroncellì, che ha affidato le sue riflessioni sulle consuetudini linguistiche italiane e su quelle d'Oltreoceano a un polemico e divertente pamphlet che sta per uscire da Donzelli Editore: Il razzismo è una gaffe. Però anche se non siamo del tutto succubi di quella che il saggista Robert Hughes ha brillantemente definito «la cultura del piagnisteo», siamo afflitti da ben altre e terribili carenze. Certo, nella Penisola non seguiamo le regole auree degli «speech codes» che imperversano negli atenei statunitensi, ossia dei regolamenti che prevedono sanzioni amministrative per quanti si abbandonino a un linguaggio sessista, razzista, omofobico (uno studente della Brown fu espulso perché da ubriaco aveva imprecato contro neri, ebrei, omosessuali). Una vera esagerazione, commenta il filosofo, polemico - sulle orme di Hughes - verso la «lagna» del politically correct che costringe a pensare e soprattutto a parlare utilizzando eufemismi a tutti i costi. Ma in Italia si sta assistendo a un fenomeno di segno contrario. Dopo il bigottismo, ovvero l'autoritarismo, degli anni baciati dal sessantottismo in cui si doveva parlare, vestire in un determinato modo, oggi si diffonde, senza alcuna seria opposizione, quella che per prima Barbara Spinelli, in un articolo sulla Stampa, ha definito «nuova sfacciataggine». Mentre negli anni ruggenti e di piombo della «rivoluzione» si sostituiva, in segno di deferenza verso la classe degli sfruttati, al dimesso «spazzino» il più nobile e sofisticato «operatore ecologico», adesso gli italiani, anche quelli che si definisco- no «di sinistra», gli intellettuali, i giornalisti, fanno tutto il contrario dei loro equivalenti americani. Alcuni esempi di questa nuova sfacciataggine? L'intellettuale liberal - afferma Baroncelli - insiste nel dire che «"negro", almeno come lo dice lui, non è offensivo, non è un termine razzi¬ sta. Quel che più conta, si sostiene, è l'intenzione. Spetta all'offeso maturare e capire che se l'intenzione non c'è, allora non bisogna offendersi». Ancora, l'intellettuale liberal si adonta se lo si rimprovera perché è cosa molto futile occuparsi del linguaggio. Molto di frequente si afferma che parlare non serve a cambiare le cose e che i portatori di handicap rimangono tali e senza strutture adeguate qualunque sia la definizione che viene data del loro stato. In altri termini si segue il vecchio detto romanesco del «parla come magni». E la «nuova maleducazione» avanza. Non c'è giorno che non ci elar- gisca il nostro razzismo linguistico quotidiano. Accanto ai « vu' cumprà» arrivano i «vu' lava» («neologismo usato - osserva Baroncelli - con naturalezza da un parlamentare che ha proposto una legge sull'immigrazione e lo usava per far capire che il problema gli stava veramente a cuore»). Ecco poi Emilio Fede, in una diretta con la Camera, gridare «Masai, Masai», per insultare un funzionario dello Stato che si chiamava Massai. Oppure, ciliegina sulla torta, proprio nella traduzione italiana del libro di Hughes il termine «black» viene tradotto quasi sempre con «negro». E poi a volte in Italia si esagera veramente: solo un paio di mesi fa la casa editrice Demetra (del gruppo Giunti) pubblicava, sollevando molte polemiche, con lo pseudonimo di Niki Laido Le più stupide, ovvero barzellette contro ebrei, «neri» e terroni. Insomma, al bigottismo del politicamente corretto che dilaga negli Stati Uniti, il Bel Paese propone un altro bigottismo, quello dell'ignoranza (e a volte dell'intolleranza). Il rimedio? Cercare di tener presente la «diversità, in tutti i campi, senza ridursi a perfetti idioti», come accade negli Usa. Però non sottovalutare il «linguaggio, il suo potere, la sua capacità di riprodurre rapporti di forza», come accade in Italia. Mirella Serri IIpolemico pamphlet di un docente di filosofia morale Emilio Fede; a destra un'università americana

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