Da Toscanini a Horowitz così Milano saluta i grandi
Solo Verdi ebbe un rito diverso Da Toscanini a Horowitz così Milano saluta i grandi IL LUTTO COLLETTIVO DI UNA CITTA' LMILANO O ha scritto lui stesso, rievocando Umberto Giordano: «Ricordo il grande funerale milanese. Un rituale che sa fare ancor oggi questa città. Un rituale ineccepibile da Verdi a Toscanini, a De Sabata e, ultimo, a Horowitz: Cose che non succedono a Roma...» Oggi, questo rito della città, questo lutto collettivo, dentro e attorno alla Scala, si ripete per lui, per Gianandrea Gavazzerà che, in mezzo secolo, da questo podio ha diretto una novantina di opere. La bara nell'atrio fra i busti di Rossini, Donizetti, Bellini e Verdi; le porte spalancate sulla platea vuota; la città che si accalca per l'ultimo saluto; la musica che dal teatro occupa gli spazi e i cuori della piazza, delle strade, della Galleria. Tutto secondo la tradizione, tutto come per gli altri grandi lutti scaligeri, come se Milano volesse, oggi come ieri, riconoscersi nel teatro e nei suoi protagonisti, quasi a cercare la propria identità (oggi, precaria e assai consunta) nell'orgoglio per la storia scaligera e per gli uomini che l'hanno fatto grande. Non per nulla, quando, il 26 aprile, un giorno dopo la Liberazione, il sindaco Greppi decise rimmediata e prioritaria ricostruzione della Scala, il suo slogan fu «Per Milano, pane e musica». Quel «pane e musica» sta alla base di quel profondo, foscoliano senso della memoria e della civica gratitudine che da sempre rendono, come scriveva Gavazzerà, ineccepibile l'estremo saluto della città ai grandi del podio e dello strumentismo. Solo Verdi non ebbe un funerario approdo scaligero. Aveva desiderato due ceri e un prete. Milano, che aveva protetto dai rumori la sua agonia imbottendo di paglia le strade attorno all'Hotel Milan, rispettò questa volontà, anche se, dietro a quei due ceri e al prete, una sterminata folla lo accompagnò al cimitero Monumentale. Ma, un mese dopo, si dovette traslare il feretro alla Casa di Riposo per musicisti che nasceva sui diritti d'autore verdiani e, allora, ecco il «rituale ineccepibile»: sul piazzale del cimitero, un «Va pensiero» diretto da Arturo Toscanini e cantato da ottocento voci, tutti i cori della città. Al Monumentale, ebbe il suo «Va pensiero» anche Toscanini che, novantenne, se n'era andato in un giorno del febbraio 1957. Non ottocento voci, un po' di meno: tre cori. Ma il grande vecchio, che aveva l'a- nimo e il piglio dei ragazzi parmigiani d'Oltretorrente, era stato onorato alla Scala e ricordato in Duomo: la bara nel «foyer» d'ingresso; il teatro vuoto; Victor De Sabata sul podio per la marcia funebre dall'«Eroica» di Beethoven; le note sul nereggiare della folla; il «Requiem» di Verdi mentre Giovanni Battista Montini, futuro Papa, celebrava Messa. Pochi mesi prima, una quasi identica folla, calamitata più dalla tragicità della sua morte (un incidente aereo) che dalla sua nascente aureola musicale, aveva partecipato al funerale del giovanissimo Guido Cantelli che, direttore artistico della Scala, si voleva fosse l'erede di Toscanini, anche se il maestro s'era, in privato, lasciato andare ad un giudizio sferzante: «In arte, alla fine dei conti, è questione di averli o non averli: ho paura che Cantelli non li abbia o li abbia piccoli piccoli. Un giorno, dovrò dirgli che me li faccia vedere». Anche quell'addio collettivo fu «ineccepibile»: catafalco in un cortile interno del teatro; corteo che si ferma sotto il porticato del Piermarini; un faro sul podio vuoto, lonta¬ no e l'orchestra senza direttore che suona il «Largo» di Haendel. Quel podio deserto e quell'orchestra senza bacchetta evocarono, allora, il cavallo gualdrappato e gli stivali vuoti infilati nelle staffe, estrema, simbolica memoria ai funerali dei condottieri, dei grandi combattenti. Dieci anni dopo la morte di Cantelli e di Toscanini, l'orchestra scaligera ancora non ebbe simbolicamente direttore nel «Requiem» di Cherubini che accompagnò nella chiesa di San Fedele, la chiesa di Alessandro Manzoni, il rito per De Sabata. Ai cordoni del carro funebre, che era partito dalla porta di scena della Scala, stava Gianandrea Gavazzerà, ultimo della generazione uscita, per l'esempio di rigore e di moralità nella musica, dal «grembo» di Toscanini. Era toccato ancora a lui, già ottuagenario, rappresentare, insieme a Carlo Maria Giulini e a Maurizio Pollini, la grande musica al funerale di Vlachmir Horowitz che aveva voluto essere sepolto accanto alla figlia Sonia nella tomba milanese dei Toscanini: la figlia spinta alla morte dalla depressione, la figlia alla quale, sul finire di ogni corcerto, dedicava le note del «Tramurei», del «Sogno» di Schumann, le stesse che un altoparlante faceva galleggiare, in un silenzio struggente, nell'atrio della Scala, occupato al centro dal feretro di Horowitz, sullo sfondo del palcoscenico e di .un nero pianoforte iUuminato nella solitudine, nel vuoto. Era il novembre del 1989. Guido Vergarti Il commosso ricordo di Abbado «E' stato una presenza costante nella vita della mia famiglia» Solo Verdi ebbe un rito diverso ■ ■ ' lai? :~" ■ ' •"■ - ■ ' I funerali di Toscanini in Duomo A sinistra Gianandrea Gavazzeni, a destra Riccardo Muti che oggi dirìgerà l'orchestra per l'addio al Maestro Vladimir Horowitz
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