Da Ricossa un provocatorio atto d'accusa contro i suoi colleghi: sono vanesi, litigiosi, arruffoni Maledetto economista non sei mai esistito di Antonella Rampino

Da Ricossa un provocatorio atto d'accusa contro i suoi colleghi: sono vanesi, litigiosi, arruffoni Da Ricossa un provocatorio atto d'accusa contro i suoi colleghi: sono vanesi, litigiosi, arruffoni Maledetto economista non sei mai esistito Cai ERA una volta l'impiegato / di una ditta di dolciumi che, a furia di riportare ogni giorno sui libri conta Ibili le entrate e le uscite, pensò di registrare a partita doppia anche i fatti della propria vita. Di qua i torti subiti, di là i modi per tornare in pareggio. Finì che si autodistrusse. Christie's Mulreys own doùble-entry dell'inglese Brian Stanley Johnson, potrebbe essere, ma non lo sappiamo, un libro amato da Sergio Ricossa, lucidissimo e luciferino padre nobile del liberismo italiano, perfido persecutore proprio della categoria che lo annovera come un maestro, quella degli economisti. Categoria vituperatissima, alla quale Ricossa ha sempre riservato, in corsivi, pamphlet, saggi e libelli, un trattamento non proprio gradevole. Stavolta esce definitivamente allo scoperto con Maledetti economisti (in uscita da Rizzoli), ovvero «Le idiozie di una scienza inesistente». Per Ricossa, il prototipo dell'homo oeconomicus è una specie di Christy Murley eretto a scienziato. E' John Stuart Mill, «inventore del calcolo felicifico. Per pareggiare i conti con una scienza infelice come l'economia, secondo l'aurea definizione di Thomas Carlyle, Mill la usò come gli pareva: «Distinse la qualità dalla quantità di piacere, e naturalmente la qualità coincideva sempre con il suo gusto personale, con ciò che lo gratificava di più». Il prototipo insomma dell'economista che esercita la professione per far tornare i conti con se stesso, con il principe, o peggio ancora con la comunità degli economisti, che è litigiosa assai. Ed è questo, per Ricossa, il vizio principale della confraternita: di fronte all'economia, lo studioso fa sempre prevalere il soggettivo, ma lo spaccia per oggettivo. A costo di ricorrere a metodi che oggettivi non sono, anche se lo sembrano, come la matematica, i modelli applicati, l'econometria. Insomma, quella economica è una scienza sociale, dunque inesatta, imprecisa e impreparata a tutto. Di Adam Smith, per esempio, si può legittimamente dubitare che sia mai vissuto, cosa del resto capitata anche a Shakespeare: non generò l'economia politica in alcun modo, e tantomeno fu fondatore della comunità degli economisti. Passa per l'inventore del laissezfaire, che invece porta la storica firma di un altro. Di Marx, ampiamente trattato, si specifica «Karl, non Groucho»: malgré soi, è l'ultimo vero difensore del Ubero scambio, l'unico che l'abbia individuato come rivoluzionario acceleratore sociale. Se Smith cominciò a scrivere nel 1764 a Tolosa la Ricchezza delle Nazioni in un momento di noia, David Ricardo comprò il libro nel 1799 a Bath in un momento di noia: gli esiti del libro, di cui si ha traccia ancora nel dibattito contemporaneo, sono epifenomeni. L'agente di cambio Ricardo scriveva in maniera elegante, e la sua opera capitò purtroppo anche per questo nelle mani di Piero Sraffa, chiamato a fare il professore da Keynes a Cambridge, anche se il panico lo coglieva ogni volta che vedeva uno studente passare. E che ebbe quindi da Keynes il compito di curare l'opera completa di Ricardo. Fin qui, sono fatti noti. Ma Ricossa punta il dito: facendo un favore all'amico Sraffa, e in fondo anche al nemico ideologico Ricardo, Keynes, che applicò nella Teoria Generale gli schemi mentali, se non l'analisi ricardiana, riuscì a buttare nel cestino definitivamente Adam Smith, condannandolo ad avere sempre torto. Economisti litigiosi, arruffoni consiglieri del principe, disposti ad autocontraddirsi, e avvinti gli uni agli altri da diatribe spesso meschi¬ ne, ma capaci di travalicare i secoli. Per trattare cotanta materia l'autore ha un tratto di addolorato snobismo, e si nasconde con un gioco: il libro è una specie di manuale di un'ipotetica santa inquisizione del 2044. Si sente così ancora più libero di prendere in giro le frequentazioni platoniche, i ménage à trois, l'omosessualità, la promiscuità di Keynes, su cui si era già anche troppo soffermato Skidelsky. Svirgola sui «pellegrini di Cambridge», che sarebbero, non nominati, gli epigoni di Keynes. Segnala che Federico Caffè, prima di scomparire nel nulla, scrisse in rima a un collega: «Non quando li prende, / ma quando li rende / la Cambridge offende». Sottolinea che Marx si dichiarava «non marxista», e nota che in fondo «aveva una serva, ne abusò, la rese madre, non ne riconobbe il figlio». Massacra Sraffa, che centrò in ritardo un obiettivo vulnerabibssimo, e cioè la teoria neoclassica, scatenando una «sottoguerra eroicomica tra due Cambridge separate dall'Atlantico». Schumpeter è un inesauribile vanesio, disposto a tutto pur di passare alla storia. Luigi Einaudi predicò la neutralità ideologica come un dovere, ma non riuscì a rispettare i propri principi. Friedman e i Chicago Boys si occuparono dei problemi economici del Cile, e di lì a poco si installò Pinochet («un governo di destra», secondo Ricossa). In un apposito decalogo in appendice consiglia agli studenti di economia di presentarsi sempre in facoltà con l'elmetto, ideologico s'intende. Inserisce se stesso nello «Sciocchezzaio» (ne pubblichiamo qui una parte) che chiosa il libro. Chiuso il libro, al lettore resta l'impressione che manchi qualcosa. Forse nel titolo: maledetti economisti, vi amerò, Antonella Rampino

Luoghi citati: Cambridge, Chicago, Cile, Tolosa