La «giustizia alternativa» ultima chimera d'America

Estero Le prigioni scoppiano, i giudici sperimentano nuove pene La «giustizia alternativa» ultima chimera d'America UN CODICE WM DA TE i: WASHINGTON • L giorno 15 del . gennaio scorso, in un piccolo tribunale del Massachusetts, lo Stato di Boston e dei Kennedy, l'imputato signor Albert Lows si alzò in piedi davanti ai giudici di contea per ascoltare la sentenza del delitto per il quale era stato riconosciuto colpevole: molestie sessuali su un bambino di 10 anni, un chierichetto nella parrocchia dove lui era diacono. «La condanno a un anno di reclusione e a esibire questa per tre anni» disse il giudice allungando una busta all'imputato che la raccolse, mesto. Albert Lows sapeva benissimo che cosa c'era in quella busta, frutto di lunghe trattative fra il giudice e i suoi avvocati. C'era una targa, una regolare targa automobilistica prodotta specialmente per lui. Sopra di essa, anziché le cifre scelte a caso dal computer della motorizzazione c'erano sbalzate otto, grandi lettere maiuscole: MOLESTER, molestatore di bambini. Il diacono della parrocchia del Sacro Cuore fu condannato a un anno di carcere e a tre anni di pubblica vergogna. Frutto della disperazione, del sentimento di impotenza che afferra la gente per bene di fronte all'apparente vittoria della gente per male, la giurisprudenza delle «pene alternative» al carcere sta diffondendosi rapidamente negli Stati Uniti. Con la grande discrezionalità che i codici americani concedono ai giudici, e con l'incubo di una popolazione carceraria che sta crescendo mostruosamente senza intaccare il crimine, i magistrati si lambiccano il cervello per trovare sentenze diverse che colpiscano i colpevoli senza far pagare il conto agli innocenti. Liste di proscrizione, gogne, punizioni corporali, rappresaglie che costringano i condannati a subire quello che hanno inflitto agli altri, formano il disperato e spesso bizzarro arsenale con il quale le legge combatte sul nuovo fronte del «delitto e castigo». La motivazione è nelle cifre, gelide testimoni di una verità sgradevole e contraria alla universale demagogia del «mandiamoli tutti in galera». In galera sono stati mandati molti, se non tutti. Gli Stati Uniti hanno ormai più detenuti, in cifra assoluta e relativa, di ogni altra nazione, Cina esclusa: un milione e 510 mila persone stanno, in questo momento, dietro le sbarre di carceri locali o di penitenziari federali e tre milioni e mezzo sono in libertà vigilata o condizionata. In tutto, cinque milioni di cittadini americani, uno ogni 50 (e uno ogni 8 se si conta soltanto la popolazione nera) stanno saldando in qualche modo un conto aperto con la giustizia. Non è più neppure una città della pena. E' ormai una piccola nazione dentro la nazione. Spesso perduta, quasi sempre dimenticata e sempre costosissima. Un detenuto costa in media 20 mila dollari l'anno, 32 milioni di lire, alle casse pubbliche. Ogni contribuente americano, ognuno di quei cittadini che invocano dai loro leader politici ancora più carceri, più severità, più forche paga in tasse, senza saperlo, 600 mila lire l'anno per alloggiare, sfamare e curare un detenuto. 'Da qui, nasce la frenetica ricerca di punizioni alternative, di sentenze che ottengano lo stesso effetto deterrente e punitivo della galera ma senza gravare sulle tasche delle vittime. In California, dove tutti i politicanti e gli amministratori pubblici co¬ struiscono e promettono sempre nuovi penitenziari, il conto della città dei carcerati sta superando i 5 miliardi di dollari, 8 mila miliardi di lire l'anno, e i legislatori brancolano alla ricerca di soluzioni preventive. Un deputato repubblicano, Mickey Conroy, aveva proposto di reintrodurre le punizioni corporali, le bac- chettate e le frustate, nelle scuole di ogni ordine e grado, per insegnare la disciplina a quei giovani che sono i principali responsabili della criminalità. Il suo progetto di legge è stato bocciato, ieri, dal Parlamento della California, ma se i parlamentari si sono vergognati di questo balzo all'indietro nel medioevo, il pubblico è meno schizzinoso. Anzi, il grande ritorno delle pene alternative cominciò proprio qualche mese addietro, quando i giudici di Singapore condannarono Michael Fay, un teenager americano colpevole di avere vandalizzato con bombolette di vernice auto in sosta, a 12 nerbate sulla schiena e sul sedere. Casa Bianca, Dipartimento di Stato e mass media si indignarono ma dall'opinione pubblica emersero reazioni ben diverse. Bene, bravi, magari lo facessimo anche noi in America, dissero i sondaggi e le lettere ai giornali e il tappo della ipocrisia saltò miseramente in aria. Ora, ogni giorno si legge di sentenze non carcerarie, di pene comminate da giudici che sanno in quale disperate condizioni siano le prigioni e vogliono punire i colpevoli senza rinchiuderli in celle dalle quali altri giudici li libereranno presto, per'liberare posti e accogliere altri condannati. A New York, capitale mondiale degli «slum lords», dei padroni di caseggiati fatiscenti affittati ai più poveri e ai più deboli, i magistrati condannano ormai regolarmente i padroni di casa alla pena dantesca del contrappasso: li mandano a vivere per la durata della sentenza nel peggiore dei loro stabili infestati da topi e scarafaggi. E lo stesso principio del taglione comincia ad essere applicato ai ladri e agli scassinatori: quando non sono in grado di rimborsare il danno inflitto alle loro vittime, devono subire il saccheggio. Le vittime sono accompagnate dalla polizia nella casa del ladro che possono svaligiare legalmente, sotto gli occhi del colpevole. Negli Stati del Midwest, i nomi di chi si macchia di reati sessuali vengono pubblicati sui giornali e negli uffici postali per un periodo stabilito dai tribunali, l'equivalente moderno della «gogna». In California, il «servizio alla comunità», comoda formula con la quale criminali scontavano pene fingendo di prestare aiuto a bisognosi, si è inasprito. Ora gli spacciatori di droga sono costretti a lavorare, gratis, da infermieri nei peggiori centri di rieducazione, cambiando bende, lavando le lenzuola sudice, vuotando i vasi da notte dei tossicodipendenti più gravi, malati di Aids compresi. In 5 dei 20 Stati americani è tornata di moda l'antica, e barbarica, «chain gang», la gang della catena raccontata in decine di romanzi, canzoni folk e film, che lega detenuti con pesanti catene e palle di ferro costringendoli a lavorare sul ciglio della strade, in pieno giorno, esposti agli sguardi e alla vergogna. Scolaresche vengono portate in «gita» dagli insegnanti a vedere gli incatenati. E un po' ovunque si aprono «boot camp», campi di rieducazione in stile militare, dove i giovani detenuti vengono addestrati e disciplinati con le più severe tecniche di addestramento reclute impartite da ex sergenti istruttori dei Marines. Chi non passa il corso, va in carcere a scontare la pena. Sono tutti, ovviamente, palliativi. Bizzarre, disperate misure tentate per alleviare un problema troppo grosso per essere risolto con la fantasia e la creatività di un magistrato. «Se neppure il timore della forza ferma i criminali, come può arrestarli la paura della vergogna pubblica?», si chiede l'opinionista George Will. Probabilmente no. Ma non sarebbe male, confessiamolo, vedere un ex ministro pizzicato a rubare, costretto a viaggiare per Roma su una elegante macchina blu targata «LADRO». Vittorio Zucconi Molti vagheggiano frustate e gogne mentre certi tribunali invitano il rapinato a rapinare con la scorta della polizia il proprio rapinatore Molestò un bambino di dieci anni: un anno di prigione e la condanna a portare sulla targa dell'automobile la scritta «molestatore» Sopra, una prigione americana. In alto e a destra, scene di vita carceraria

Persone citate: Albert Lows, George Will, Kennedy, Michael Fay, Mickey Conroy, Vittorio Zucconi