Heine, il miracolo del genio a pezzi

Un biografo americano ricostruisce per la prima volta gli ultimi anni tormentati del poeta Un biografo americano ricostruisce per la prima volta gli ultimi anni tormentati del poeta Heine, il miracolo del genio a pezzi «Troppo caro morire a Parigi» S~T| APPARTAMENTO al nu/ mero 46 di rue Faubourg Poissonière in cui Heinrich I i Heine viveva nel 1847, esu== Ile a Parigi da quando la Germania aveva cominciato a bandire le sue opere, era un povero alloggio di tre stanze con vista su un cortile buio. Il più grande poeta tedesco viveva più poveramente di un modesto scrittore francese. E la misteriosa malattia che stava corrodendo il suo corpo doveva aumentare la piaga della miseria. «E' già abbastanza caro vivere a Parigi», scriveva Heine al suo editore di Amburgo, «ma morire a Parigi è infinitamente più caro. E pensare che in Germania o in Ungheria potrei essere impiccato gratis». Quel poveraccio che stava andando in pezzi, come scrisse Engels a Marx dopo una visita al tetro appartamento del Faubourg Poissonière, a 50 anni era cieco già da un occhio, paralizzato dalla vita in giù, tormentato da problemi di digestione, tradito dai parenti ricchi che lo lasciavano nella miseria, afflitto da una moglie bambina che lo trascurava, e persino abbandonato dal proprio editore. Questa è la sconcertante cornice di The Poet. Dying di Ernst Pawell (Il poeta morente, edito da Farrar, Strauss & Giroux), un libro strano e molto bello, che è diventato in queste settimane un evento letterario negli Stati Uniti. Racconta l'intollerabile l'agonia di un intellettuale vivacissimo, un ribelle dello spirito inchiodato al materasso per otto anni, mentre intorno a lui la Francia vede passare il re borghese, la rivoluzione del '48, Luigi Napoleone, e i diecimila morti del generale Cavaignac. Marx e Engels, buoni amici di Heine, credettero che quest'ultimo bagno di sangue avrebbe preparato le masse all'imminente conflitto finale. Anche Heine era sempre più convinto che il futuro appartenesse ai comunisti, e tuttavia scriveva: «... mi riempie di indicibile tristezza pensare alla minaccia che rappresenta il proletariato vittorioso per i miei versi, che periranno insieme a tutto il vecchio mondo romantico». Pawell è molto bravo nel ricostruire il lavoro di una mente viva prigioniera per otto anni di un corpo morto, di 35 chili di peso, quasi cieco, annebbiato completamente dall'oppio, e spesso incapace anche di parlare, ma che riuscì malgrado tutto a produrre versi tra i più alti del secolo, e prose corrosive di critica sociale. Questo fu il miracolo di Heinrich Heine, il più bistrattato tra i figli e i nipoti di Solomon Heine, lo zio banchiere miliardario che alla bancarotta del fratello Samson si fece carico dei suoi debiti e dei suoi affetti, con una spietatezza senza eguali. Da allora Heinrich visse mantenuto da un uomo che disprezzava i suoi versi, circondato da cugine di cui s'innamorava senza speranza, e da fratelli la cui principale preoccupazione nella vita fu di nascondere la propria origine ebraica dietro un titolo nobiliare ottenuto o semplicemente inventato. Anche Heinrich non ebbe a quanto pare il coraggio di confessare le proprie radici alla moglie. E qui è la parte forse più impressionante di questo bilancio crudissimo della vita del poeta, che se colpisce il lettore con le immagini vivide della sua tortura - i crampi all'addome di giorno e di notte, la posizione fetale a cui è costretto, le corde appese sopra la sua testa per fargli esercitare le braccia («sospetto si tratti in realtà di un delicato invito del mio medico a impiccarmi»), e poi i rimedi classici della medicina primitiva, sanguisughe e bruciature sulla schiena -, sgomenta con il ritratto del suo matrimonio con Mathilde, al secolo Crescence Eugénie Mirat, di 15 anni più giovane. Difficile immaginare una donna più gretta dell'orfanella analfabeta che a 19 anni aveva ispirato al poeta un ciclo di celebri poesie erotiche, e che si era trasformata dopo il matrimonio in una grassa moglie bambina, avida di pizzi e cappellini e del denaro che il poeta si sforzava di mettere insieme. Mentre Mathilde passava tanto tempo fuori casa ogni giorno da far sospettare a Marx, e non a lui solo, di essere una puttana di servizio in qualche bordello, l'ansia di procurare i soldi per i suoi capricci e garantirle un futuro sarebbe stata, secondo Pawell, la formidabile fonte di anticorpi che fece evitare a Heine le polmoniti che a quell'epoca mettevano pietosamente fine a mali gravi e tenaci come il suo. «Se fosse più intelligente, mi preoccuperei meno del suo futuro», scrisse Heine alla madre nel 1847, con evidente sincerità. «Il che dimostra ancora una volta che la stupidità è un dono degli dei, perché costringe gli altri a prendersi cura di te». Tanto lontano era dal vero, che Mathilde, rimasta vedova, visse benissimo vendendo gli scritti del marito e ricattando probabilmente la sua famiglia. Arrivò persino a offri¬ re all'Austria e alla Germania la possibilità di acquistare dei manoscritti per impedirne alla radice la pubblicazione. Un bel cinismo, non c'è che dire. Ma allor perché un uomo che si era fatto esiliare dal suo Paese per potere scrivere liberamente quello che pensava accettò la censura della propria famiglia per proteggere una donna simile? Heine, si sa, viveva degli articoli che scriveva per la stampa tedesca e francese, dei proventi dei suoi libri e di un assegno del governo francese (che dopo la rivoluzione del '48 il collega Lamartine fece subito sopprimere). Ma soprattutto, visse del denaro che gli passava lo zio Solomon, che alla propria morte, nel 1844, non gli lasciò un centesimo, costringendolo a implorare la generosità dei cugini. E fu uno di questi, Cari Heine, ad accordarsi con lui due anni più tardi per un modesto vitalizio da estendere dopo la sua morte a Mathilde, in cambio dell'impegno a non pubblicare mai nulla che riguardasse la famiglia. Questo voleva dire negare al poeta il diritto di eventuali memorie, e se Heine di fatto le abbia scritte o no - e se Mathilde le abbia poi vendute alla famiglia che le avrebbe distrutte - è tuttora materia di dibattito. Certo è che il successo dei libri di questi ultimi anni (il Romanzerò arrivò a vendere 21 mila copie, una cifra enorme per l'epoca, soprattutto per una raccolta di poesie) accese l'avidità di Mathilde e non intenerì più di tanto il suo editore, che avrebbe prosperato in futuro proprio sui libri del poeta. In una poesia-testamento Heine aveva scritto «... auguro ai miei virtuosi avversari di ereditare la mia malattia e tutte le mie pene, i miei dolori e le mie fitte. Vi trasmetto le coliche addominali che mi serrano la pancia come pinze, i problemi di cistifellea e le miserabili emorroidi prussiane...». Morì dopo aver riscoperto un dio personale nella Bibbia, senza tuttavia aver riconosciuto questo passo ufficialmente («Dio mi perdonerà. E' il suo mestiere»). Ed ebbe il tempo di prendersi la bella rivincita di un coup defoudre con una bruna ventisettenne, Elsie Krinitz, che se rimase una figura dubbia, vegliò tuttavia accanto a lui con grazia e discrezione. Quanto a Mathilde, la mattina del 20 febbraio 1856 non si presentò a Montmartre per accompagnare suo marito alla tomba, intorno alla quale si erano raccolte un centinaio di persone. «Il corpo di lui giaceva ancora in casa, il giorno del funerale», scrisse Marx pieno di disprezzo, «e la dolce e angelica Mathilde aspettava già sulla soglia il maquereau che veniva a portarla via». Sparì per mesi interi. E come nessuno scoprì mai dove andava quando si infilava i guanti e il cappellino, e usciva lasciando solo il marito, nessuno riuscì mai a sapere dove si nascose per tutto quel tempo, prima di tornare a far bottino dell'eredità di un grande scrittore, di cui, essendo analfabeta, non aveva letto mai nemmeno una riga. Livia Manera i Inchiodato a letto, tradito da tutti ma per mantenere la sua donna produsse versi fra ipiù alti dell'800 Parigi» o da tutti donna ti dell'800 Heinricafflitto tortura Heinrich Heine: morì in miseria, afflitto da problemi di digestione, torturato nel corpo e nello spirito