Il'68? Ha contagiato anche Pivetti, Bossi e Buttiglione di Irene Pivetti
Il '68? Ha contagiato anche Pivetti, Bossi e Buttiglione polemica. Un pamphlet contro i «formidabili danni» di un'ideologia che non muore Il '68? Ha contagiato anche Pivetti, Bossi e Buttiglione NHOME: Mario Chalet. Professione: insegnante di Storia contemporanea alla Freie Universitàt di Berli—Ino. Vocazione: guastatore. Sono gli ingredienti d'un piccolo giallo editoriale che la cattolica Piemme ha appena scatenato con Formidabili quei danni!, vetriolesco pamphlet contro il Sessantotto e i suoi perenni cascami (perché il '68 «non finisce mai»). Un gioco sardonico e spietato, fin dal nom de piume, un sostantivo francese che sta per «villino con tetto acuminato», parente di quella «capanna» che accendeva le università e rievocò la «rivoluzione» nel Fonnidabili quegli anni. Chi si nasconde dietro lo schermo? Gli indizi di questo omicidio «rivoluzionario» sono per il momento scarni. E' un filosofo, un po' cattolico c un po' di destra, insegna a Roma, o Milano, o Palermo (una delle tre è giusta). Un'ipotesi: che sia Armando Plebe, o il suo allievo Pietro Emanuele, già autore di Piemme? 0 qualche maitre-à-penser della Cattolica? Chalet inquadra vizi (tanti) e virtù (poche) di un virus che ha contagiato la società italiana e che non è mai stato debellato. Anzi, a distanza di quasi trent'anni è più tenace che mai. La sindrome del sessantotto continua a «dilagare», colpisce in ordine sparso «dai giornalisti alle baby-sitter, dai magistrati agli assistenti sociali». «I figli di papà» che fecero le barricate o si divertirono a tingere di giallo i poliziotti «sono stagionati, ma in compenso resistono a qualsiasi antidoto»; i loro metodi imperversano nel deprimente panorama cultural-politico dell'Italia attuale. E «un discorso sul '68 è più importante oggi che venticinque anni fa (nota per il giallo: il testo risale al '93?). Non perché abbiamo le barricate alle porte, ma perché è più difficile difendersi oggi dal sessantottismo strisciante che non allora, dall'uragano del Maggio. Anche del Sessantotto può infatti dirsi che gli epigoni sono più pericolosi dei progenitori». Dal momento che gli ex rivoluzionari si sono riciclati nei posti chiave: ai vertici dell'informazione, della politica, dell'università. Insomma, spranghe e molotov sono in cantina. Ma il Sessantotto come vizio permane. Trasformato in gioco, in un salotto, che «contraddistingue l'alta società politica come l'iscrizione al Circolo degli Scacchi o al Whist». Quali i sintomi della pestilenza? Chalet li classifica con una perfida fenomenologia. La sindrome ha inculcato il rifiuto dell'ascolto e del dialogo: si sentono solo le voci del proprio branco. Ha lasciato «stimmate fisiche e facciali» nel modo di comportarsi, tipo sguardo torvo e bocca contratta alla Gruber o Sattanino. Ha trasmesso l'insegnamento che bisogna odiare, odiare indiscriminatamente, perché è un sentimento comodo e socializzante. Ha distrutto le università, ha immunodepresso il dibattito culturale, ha infestato di politica filosofia e vita quotidiana. Ha lasciato nella lingua un gergo insopportabile, vuoto, ridicolo, di cui l'autore compila un lessico compattato in appendice. Chalet mette a nudo la tipologia del sessantottino in tutta la sua difettosità. Nella carrellata compaiono i personaggi storici che cullarono le inquietudini del maggio rovente, da Capanna a Piergiorgio Bellocchio, da Sofri a Boato. Ma la malattia, secondo l'anonimo fustigatore, colpisce anche insospettabili. Dal «longobardo» Bossi alla finta colomba Bassanini, a Buttiglione, sono molti i politici attuali figli dell'antica virulenta faziosità. E poi Di Pietro: «Che porta sulla cattedra universitaria la sua parlata più ricca di folclore che di sintassi... viene a coronare proprio quello che è stato uno dei desideri più ardenti del Maggio: consegnare l'università in mani il più possibile lon¬ tane dalla cultura». Irene Pivetti è una perfetta Salomè sessantottarda che traduce gli antichi strappi ai jeans in «strappi ai comportamenti civili, strappi al buon senso, strappi soprattutto alla sincerità e alla coerenza». E molti altri, da Santoro a Marina Ripa di Meana. E gli antibiotici contro D virus maggiano? Chalet stana tutti i blandi antidoti finora escogitati, figli dell'indignato orrore che Raymond Aron provò di fronte alla distrutta Sorbona. L'ironia è un'arma spuntata; Dahrendorf è un «paternalistico» tentativo di normalizzazione. Antidoti efficaci, forse, possono essere distillati dall'apologia della meritocrazia fatta da Nozick contro i veleni del collettivismo; o magari dal liberalismo di Rorty. Nel suo scritto corsaro, impietoso e eccessivo, Chalet riconosce anche una «luce» allo spirito del «for- midabile» maggio: la battaglia contr.) baronati e potenti, il messaggio che anche le formiche nel loro piccolo possono incazzarsi, che Golia possa andare gambe all'aria. Paradigma importante, eredità positiva. Ma più teoria che pratica, perché la sostanza del potere è rimasta tale, sono cambiati solo gli esponenti. Talvolta Chalet depone il suo pathos antisessantottino. Sa che il '68 è nato molto prima del '68. Ne erano infetti Catilina, Masaniello, Artaud, e tutti quei furibondi che hanno inguaiato gli ingegni pacifici. Il sessantottino è colui che assomma tutti i lati peggiori dei quattro caratteri aristotelici, creandone un miscellaneo «quinto». E' melanconico, perché mente gli va bene. Non vuol fare né la guerra né l'amore. Desidera sfasciare tutto ma poi ha bisogno di coraggio. E' collerico come ogni bambino viziato. Insomma è una categoria universale e imperitura dell'uomo. Spesso Chalet scrive «sarebbe ingiusto... eccessivo... attribuire la colpa di questo stato di cose soltanto al Sessantotto». Tuttavia, alla frase dopo, emerge sempre un «però», un eterno ritorno al diabolico accusato. L'ira del pamphlet prevale sulla serenità dell'antropologo. Bruno Venta voli «Diventato salottiero ma sempre fazioso: non risparmia nessuno, arriva fino a Di Pietro» A sinistra, un'immagine del '68 qui sopra, Irene Pivetti; in alto Piergiorgio Bellocchio
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