«Deve tornare come prima»«E' troppo legata all'anima della città»

«Deve tornare come prima» «Deve tornare come prima» «E' troppo legata all'anima della città» GLI ARCHITETTI E LA RICOSTRUZIONE GMILANO LI architetti alfieri del moderno sono rimasti folgorati. Quella facciata, quelle finestre piene di fiamme... La Fenice è ora un teschio, una Medusa che li ha impietriti, disarmati. Rifare subito il Gran Teatro così com'era, riempire subito quel vuoto: è l'unico desiderio, l'unico progetto che sanno esprimere per vincere l'angoscia che li ha presi. I sacerdoti della più ardita sperimentazione architettonica non se la sentono di perdere per sempre la bellezza della Fenice per far sorgere, dal nulla che è rimasto, un teatro tutto nuovo, contemporaneo. Questa non è occasione per esperimenti. Stravince il recupero, lo scrupolo filologico. Persino un architetto del Movimento moderno come il novantenne Ignazio Gardella, amico del celebrato Ernesto Rogers, non ci pensa su più di tanto. Gardella è stato fra gli autori, insieme con Fabio Reinhart, Aldo Rossi e Angelo Sibilla, del nuovo Carlo Felice di Genova, caduto sotto le bombe nel '43 e avviato alla ricostruzione dopo ben 44 anni: nato nel primo Ottocento, è diventalo un'altra cosa. «La sala del Carlo Felice - racconta Gardella non faceva più parte della memoria collettiva della città, e poi il teatro a palchi è oggi superato: per questo pensammo la sala come una piazza e al posto dei palchi mettemmo finestre e balconi. A Venezia invece rifarei La Fenice tale e quale: è troppo legata all'anima della città. Aggiornerei soltanto il palcoscenico con tecnologie attuali». Neanche Gae Aulenti ha dubbi: «La Fenice va ricostruita com'era». La Aulenti risponde da Barcellona e dice che lì il 30 gennaio di due anni fa è andato a fuoco il teatro Liceu e dopo polemiche feroci ha prevalso il criterio del ripristino: «Per Venezia la scelta è ancora più obbligata». Vittorio Gregotti, che insegna a Venezia, che ha uno studio a Venezia, e sua moglie è veneziana, abbandona il suo credo: «Ho fatto il teatro di Lisbona mettendo pietra all'interno e legno al soffitto: io sono per innovare sempre, per correre i rischi culturali che ci impone il nostro tempo. Ma per La Fenice no, non vale la pena di rischiare, perché quel teatro è un omaggio alla memoria e perché ci sono gli elementi (disegni, foto, rilievi, modelli) per rifarlo intatto. E stuccatori, dorato- ri, falegnami e altri artigiani si possono trovare ancora». Il veneziano Francesco Dal Co, storico dell'architettura e nuovo direttore della rivista Casabella, fa lo stesso percorso: anche lui è per scommettere sul nuovo e quindi non è tanto d'accordo con il programma che lo studioso d'arte Bernard Berenson lanciò nel dopoguerra: «Restaurare un edificio vuol dire rifarlo com'era e dov'era». Un'idea realizzata con successo sui Lungarni fiorentini distrutti dai tedeschi. «E' uno slogan oggi inadeguato e insostenibile - commenta Dal Co -. Conservare e innovare, ecco l'equilibrio da raggiungere. In qualunque altra città le reazioni al fuoco che distrugge un teatro sarebbero diverse, non unanimi a favore di una rinascita identica: è Venezia che impone limiti». E Paolo Morachiello, presiden¬ te a Venezia del corso di laurea in conservazione dei beni architettonici e ambientali, afferma: «Cancellare per sempre La Fenice vorrebbe dire cancellare la principale testimonianza della storia del teatro veneziano fra Sei e Settecento. Il Consiglio dei Dieci la decise eccezionalmente in un solo pomeriggio: un sussulto di vitalità di Venezia agonizzante. E' un significato simbolico che vale ancora oggi». Tutti dunque rivogliono La Fenice così com'era prima di quest'ultimo rogo. Il solo Paolo Portoghesi è contrario. Dice che l'interno della Fenice era da ultimo, nelle decorazioni eseguite via via dopo l'incendio del 1836, «un pastiche, una bruttura, un orrenda superfetazione eseguita secondo il cattivo gusto dell'epoca: un falso rococò che faceva a pugni con la vi¬ sione originaria del progettista settecentesco Giovanni Antonio Selva». Sarebbe un grave errore recuperare oggi quello stile «antiquario veneziano»: molto meglio inarcarsi ancora più indietro nel tempo e tentare di riscoprire l'originale. Lo scenografo Pier Luigi Pizzi da Parigi ricorda la sua «lunga notte dolorosa» al telefono con gli amici veneziani: «La maggior parte della mia vita l'ho spesa alla Fenice... E' uno strazio. Non posso immaginare che quei muri vuoti si riempiano di qualcosa di diverso da ciò che ho amato per tutta la vita». Claudio Altarocca Ma Portoghesi «Non bisogna rimettere in piedi quell'orrore» Da sinistra gli architetti Paolo Portoghesi e Gae Aulenti La sala del teatro durante uno spettacolo. Sotto, vigili del fuoco ieri al lavoro

Luoghi citati: Barcellona, Genova, Parigi, Venezia