Becker l'australiano

33 Becker, l'australiano «Merito di mia moglie Barbara» MELBOURNE. «Sinceramente, non pensavo di poter vincere un altro torneo dello Slam». Bugiardo. Uno splendido bugiardo. Ma ti perdoniamo, Boris, perché giochi come solo in paradiso si gioca. Se c'è una cosa che Becker, ieri vincitore del suo sesto titolo dello Slam e del suo secondo Australian Open (il primo lo agguantò nell'ormai lontano '91) contro il tennista aspirapolvere Michael Chang, non ha mai perso nella lunga stagione della sua penombra, è la fiducia in se stesso. Dopo la sua prodigiosa apparizione sul circuito nell'85, quando timbrò la prima delle sue tre vittoriose finali a Wimbledon, il wunderkind aveva vissuto la sua epoca ruggente nel biennio '89/90. Nel '91 era finalmente arrivato sul cucuzzolo del ranking, poi erano iniziati, improvvisamente, anni aridi, disidratati da mezze delusioni, una vera e propria siccità negli Slam, i 4 tornei che contano: nessuna finale fra Wimbledon '91 e Wimbledon '95 (dove ci fu però il primo segnale della resurrezione), due primi turni e un forfait qui a Flinders Park, giusto un titolo al Masters. Boris sembrava prematuramente trasformato in reliquia dal power-tennis che proprio lui, Bum Bum, guarda caso aveva contribuito a partorire. Invece eccolo qui, il rosso, ancora un gigante, una certezza per tanti giovani, lui, veterano vincente (a 28 anni) in uno Slam come prima di lui Lendl, Gomez (30), Connors (31): diritto imperiale, rovescio che ti butta fuori dal campo, servizio e volèe che incatenano allo stesso tempo acciaio e velluto. Tennis, grazie al cielo, non tiro al piccione. Chang entra in campo e si ritrova immediatamente a remare, brekkato al primo gioco. Raccatta tutto o quasi, il cinesino, ma presto inizia a lanciare occhiate inquiete al fratello Cari, un idolo di pietra in tribuna: 5-0, 5-2, 6-2. Nel secondo set Boris sfonda di nuovo, nel terzo rifiata - soprattutto fisicamente - si concede qualche doppio fallo di troppo ma non lascia troppe fessure dove il mandarino possa far leva e tentare di rientrare in partita. Nel quarto è implacabile: un telefonino che trilla gli dà una mano facendo deconcentrare Michael, che esala un doppio fallo, l'approccio di rovescio che gli dà il break sul 2-1 è però tutto made in Becker. Va a servire, Chang lo trascina sul 30 pari e si carica mugolando e agitando i pugnetti: ace. Il sesto game è favoloso, Boris a rete usa il bisturi e da fondo manovra un mortaio, nello stadio circola palpabile l'ammirazione. Chang si fa di gomma, decolla in sospensioni degne di Jordan per ribattere gli schiaffoni di Boris, si fa insolitamente prendere dalla stizza davanti al capolavoro che sta disegnando sul campo l'avversario. Anche lui - che nell'89, a 17 anni e 3 mesi, rubò a Boris il record di precocità nello Slam vincendo a Parigi - deve colmare un lungo digiuno (7 anni), anche lui dal '95, ancora a Parigi, ha ereditato una finale amara da digerire. Negli anni si è costruito un servizio temibile, Michelino (ieri 11 ace pari), rimane però un contrattaccante, volenteroso ma limitato anche dai centimetri che rende abitualmente ai suoi avversari: contro il folgorante tennis a tutto campo di un Becker atleticamente rifinito e calmo come un semidio (proprio lui, l'eterno mugugnatore), non ci sono polpacci che tengano. «L'unica consolazione è di aver perso contro un vero campione del mondo», dice alla fine Changino, alludendo al titolo perso sempre contro Boris lo scorso dicembre a Francoforte. Al tedesco, raggiante ma stanco («non ho esultato perché facevo fatica a stare in piedi»), tocca invece spiegare i segreti della sua riemersione. «Merito di Barbara, mia moglie, merito del cambiamento che ho attraversato due anni fa. Via coach, via manager (Tiriac ndr), ho ricominciato ad allenarmi bene. Barbara mi aveva chiesto di vincere un altro Slam per lei, ci ho messo cinque anni ma l'ho accontentata. Prima ho mentito, è vero dentro di me il fuoco di una grande impresa ha sempre covato. So che non mi rimangono molte chance, quando arrivano faccio di tutto per coglierle, ma ho capito che il tennis in fondo è un gioco». Sui suoi amici Wilander e Novacek, scoperti positivi all'antidoping (cocaina, ma relativamente a Parigi '95), non fia¬ ta discetta invece sul futuro. Nel gennaio '91, appena dopo aver battuto proprio qui Lendl, Boris diventò numero uno del mondo, «il sogno della mia vita». Vogliamo allora parlare di Parigi, l'unico grande torneo che manca alla collezione del campione tedesco (45 titoli), forse del Grande Slam? «Perché no - sorride -. Ho sempre avuto i colpi, ora in più c'è la fiducia. Anche quello è sempre stato un mio sogno. E per quest'anno, scusatemi, ma sono l'unico a poterlo sognare, no?». Alessandro De Giorgi A Melbourne supera Chang in finale e vince il suo 6° titolo dello Slam Chang è in ginocchio, distrutto. Becker (in alto) è raggiante: «E ora faccio un pensierino al Roland Garros»

Luoghi citati: Barbara, Flinders Park, Francoforte, Melbourne, Parigi, Slam