Pennino: così Cosa nostra ha sedotto la dc siciliana

Pennino: così Coso nostra ho sedotto la de siciliana IL BUSCETTA DELLA POLITICA Pennino: così Coso nostra ho sedotto la de siciliana I lui hanno detto che è il Buscetta della politica e infatti le sue rivelazioni rappresentano il perno attorno al quale ruotano processi importanti come quelli che vedono miputati il sen. Enzo Inzerillo, l'ex ministro Calogero Mannino e lo stesso Giulio Andreotti. Gioacchino Perniino, uomo d'onore della ((famiglia» di Brancaccio ma anche medico, ex sindacalista, ex dirigente dell'Inani, ex quadro della de palermitana, rappresenta la memoria storica di im pezzo di storia palermitana e siciliana. Figlio di mafioso e discendente di ima stirpe da sempre inserita tra la politica e Cosa nostra, «Gino» Pennino ha dipinto un quadro fosco della «buona società» palermitana. Una foto di gruppo dove risultano incerti i contorni, il confine tra la legalità e gli interessi delle consorterie politico-mafiose. Dalla sua testimonianza, !a ricostruzione di come sia stato possibile che per anni Cosa nostra abbia potuto dominare e decidere sulla vita e sulla morte di una cospicua fetta di società palermitana. «Gino junior» adesso ha parlato coi magistrati e per la prima volta - accetta di parlare coi giornalisti. Dopo questa intervista, ha incontrato Carmen Lasorella, che martedì lo ospiterà nella puntata di «Cliché» dedicata al luogo comune sulle «pecore nere». Ci può raccontare, dott. Pennino, iJ suo incontro con la mafia? «Io non ho incontrato Cosa nostra, non c'è stato un momento in cui l'ho scoperta. La malìa io l'ho sempre vissuta: dai discorsi di mio padre, dalle mezze parole dei miei zìi, dagli amici della borgata di Brancaccio. Tutto ciò che mi accadeva intorno era intriso di mafia». Anche suo padre, Gaetano, era uomo d'onore? «La mia era mìa famiglia atipica: da parte di padre tutti mafiosi, ma di rango cioè all'antica, uomini di rispetto che amavano circondarei di persone importanti, rappresentanti della buona borghesia, imprenditoriale e politica. Mia madre - invece era ima donna colta. La sua sensibilità, però, non ebbe gioco facile nella battaglia con una cultura, quella mafiosa, molto più radicata nella nostra tradizione». Lei parla di una sottocultura presentandola come qualcosa di positivo. «Io parlo di una realtà scomparsa, incomprensibile se vista con l'ottica di oggi. Parlo di mio padre che viveva di commercio e attività agricole, di mio nonno che non rubava. Parlo di ima Palermo estinta, di Romagnolo, dei Bagni Virzì, del ristorante Spanò. E penso ai miei parenti, mio cugino Gino Di Caccamo, figlio di don Fifì, mio zio Gioacchino - entrambi capimafia di Brancaccio che giravano in calesse e passavano le giornate seduti per strada, magari davanti al negozio di un amico, a sentire quanto accadeva nel territorio da loro governato e tentare di impedire ogni violenza». Ma con quale diritto? Con l'autorità loro data daU'intunidazione e dalla violenza? ((Allora non si sentiva molto questa cappa di cui lei parla, che tuttavia è stata presente negli ultimi venti anni. Tanto da aver indotto molti uomhii d'onore a fuggire da Cosa nostra. D'altra parte l'inganno era ben congegnato: essere mafiosi veniva presentato come un privilegio per essere stati accettati in una élite che professava il culto del rispetto, dell'ospitalità e dell'omertà. Era una società di mutuo soccorso, la mafia. Avete idea dei favori che potevano fare personaggi come mio nonno o come don Paolino Bontade, il padre del più conosciuto Stefano?». Ci dica... «Prenda mio come me. Frequentavo ambienti sani come la chiesa di Casa Professa, eppure mi sono ritrovato "automaticamente" raccomandato agli esami di maturità. Solo per il nome che portavo. All'Università le cose non cambiarono. Per darle un'idea del clima, le dirò che il professore di anatomia umana, che avrebbe dovuto interrogarmi, mi convocò per chiedermi se potevo far intervenire i miei parenti in suo favore. Qual era il problema? Era ricco, proprietario di molte terre e per questo era costretto, temendo un sequestro, a camminare scortato. Ne parlai con Franco Barbaccia, medico anche lui (otorino all'Ucciardonel, che mi spiegò per bene come stavano le cose e come avrei dovuto comportarmi. Naturalmente passai l'esame di anatomia». Ma le «cose brutte», non le vedevate? «Certo... e tante altre cose le "rubavamo" ai discorsi degli adulti». Chi le confidava i segreti di mafia? «Nessuno parlava. Solo mio zio Totò - che non era uomo d'onore e neppure viveva a Palermo - ogni tanto mi raccontava vecchi aneddoti. Come quello del parroco di Brancaccio che, subendo un'estorsione, si rivolse a mio nonno. "Se hanno chiesto - gli rispose il nonno vuol dire che hanno bisogno. Lei paghi, ma - caro padre - consegni monete da 5 lire preventivamente segnate". Il prete mise il denaro dove gli era stato detto e si disinteressò del fatto. Ma qualcuno controllava la borgata per individuare chi avrebbe messo in circolazione le monete estorte al prete. Era un barbiere: dopo qualche giorno fu ucciso mentre teneva il figlioletto - risparmiato dalla lupara - sulle gambe. Questi racconti mio zio Totò me li faceva anche per cercare di tenermi lontano da quell'ambiente». Tutto ciò non è bastato a tenerla lontano dall'onorata società. «E' un ingranaggio che ti prende. Ti senti importante, stai a contatto con gente importante: professionisti, politici e politicanti, magistrati...». Già, la politica. Era il tempo del «quieto vivere». Tutti sapevano e nessuno parlava... «Il terreno di incontro erano gli interessi, gli affari. Io frequentavo il "Circolo del Tiro a volo" e lì c'erano tutti. Tutti insieme mafiosi e notabili, nobili e borghesi arricchiti. An- cora non c'erano neppure le correnti nella de. Ma c'erano i notabili, ognuno aveva il suo seguito e i suoi interessi. Parlo di uomini come Calogero Volpe, Tano De Leo, Bernardo Mattarella, Franco Restivo, Aldisio e tanti altri. Eravamo agli albori della speculazione edilizia e già allora fu chiaro che senza la sinergia con la politica non si facevano soldi. Ricordo un personaggio, Mario La Rocca, un liberale, che divenne assessore. Siamo negli Anni 50, lui si occupava del piano regolatore, ma prima di fare qualunque passo vennero convocati i proprietari di Ciaculli e Croceverde, di Brancaccio, di Romagnolo. Alcuni optarono per la speculazione e allora certi terreni da "verde" furono trasformati in aree edificabili. Altri, come i Greco, preferirono invece tenersi gli agrumeti. Bene, questa operazione vedeva coinvolti politici, mafiosi e persone perbene: ricordo, tra le persone perbene, che fra quelli che vendettero c'era il magnifico rettore Lauro Chiazzese, suocero di Piersanti Mattarella. Analoga promiscuità potevi trovare al Circolo della Stampa che, durante le feste di Natale, si trasformava in una vera e propria bisca gestita da mafiosi». Proprio da mafiosi? «Nel 1958 la sala gioco era in mano ai fratelli La Barbera, a Saro Mancino, Enzo Savoca a un tal D'Avenia: giudichi lei la mafiosità di questi personaggi. Ed era frequentata da Masino Bascetta, Totò Romano, Ernesto Di Fresco, da un corleonese chiamato «capitano Di Carlo». Al Circolo della Stampa ho conosciuto il giornalista Mauro De Mauro». Era questa promiscuità il collante tra mafia e politica? «Era un sistema: Peppuccio Insalaco, poi ucciso dalla mafia, cominciò come garante di Totò Greco. La borgata di Brancaccio era il "motore" di ogni campagna elettorale. I boss mettevano lingua nelle sezioni e nella designazione dei delegati a rappresentare gli iscritti nella vita del partito. Il pacchetto dei voti, d'altra parte, lo detenevano loro. Questo fino all'avvento di Lima prima e di Ciancimino dopo». E Andreotti? «Lima era il suo uomo a Palermo e non v'è dubbio sulle sue frequentazioni ed amicizie. Nell'ambiente prettamente mafioso - devo dire per onestà - nessuno mi ha mai parlato di Andreotti. Furono i Salvo a parlarmi del senatore, indicandolo come il loro "salvatore" a Roma e assicurandomi, qualora ne avessi avuto bisogno, la piena disponibilità del loro capocorrente». So che non ama entrare negli argomenti oggetto di processi ancora in corso e quindi non insisterò. Ma le voglio chiedere una cosa: lei si è dissociato da Cosa nostra più di un anno fa. Ha avuto ripensamenti? Le pesa la sua nuova condizione? «E' una scelta che sottoscrivo, anche se non mi sento un pentito. Mi sento mi cittadino che ha sbagliato e chiede di essere nuovamente accettato nella società civile. Io non ho ucciso nessuno, ho fatto parte di mi ingranaggio ma il mio ruolo non era quello di un mafioso come tutti gli altri. Certo, mi pesa il distacco dai familiari. Soffro per l'atteggiamento di mio fratello Aldo che, anche per accreditarsi come "buono" agli occhi di una certa Palermo, mi si è messo contro, fino a non esitare a danneggiare economicamente e moralmente mia figlia. Mi mancano gli affetti, mia moglie, i miei figli». Ma lo Stato mantiene i suoi impegni? «Se devo dirla tutta, per me lo Stato è il colonnello Pomi, un ufficiale di prim'ordine a cui devo tutto: la mia sicurezza, la mia stessa vita. Se non ci fosse stato lui credo che la mia condizione sarebbe difficile perché il servizio protezione, fino a questo momento, non è stato mai messo in condizione di funzionare bene. Troppa burocrazia, troppa lentezza, il cambio di identità sembra un miraggio lontanissimo, la possibilità di essere reinseriti nella società la vediamo irraggiungibile. Io non ho un gran bisogno di aiuto economico perché dispongo di una buona pensione. E' indispensabile, però, un'assistenza sanitaria costante e laboriosa. Mi dicono che le cose cambieranno e presto. Speriamo». Francesco La Licata «I Salvo mi parlarono di Andreotti Era il loro salvatore negli affari romani» «Dallo Stato ho avuto poco Il cambio di identità è un miraggio lontanissimo Contro di noi troppa burocrazia» «I boss gestivano i pacchetti di voti Designavano anche i delegati che partecipavano alla vita del partito»

Luoghi citati: Lima, Palermo, Roma