Il supplizio della first lady di Vittorio Zucconi

Per la prima volta un caso ha diviso il Paese secondo i sessi: le donne innocentiste gli uomini colpevolisti Il supplizio della first lady Sorriso dolce, occhi da tigre, come in un film LA SIGNORA E IL POTERE vvnoi. L WASHINGTON A signora I con il maxicappotto nero ha il sorriso dolce e gli occhi gelidi, quando sale i 4 gradini del tribunale verso il suo patibolo giudiziario. A Washington fa freddo, ma la signora non porta cappellino né guanti perché sarebbero troppo un segno di debolezza, e lei non può permettersi mai di sembrare debole e freddolosa. Meglio un raffreddore che un punto in meno nella guerra dei simboli. La signora dice due parole di circostanza ai microfoni e sale svelta i gradini, leggera, sospinta dal vento degli odi e dell'ammirazione che soffiano furiosi alle sue spalle dal giorno in cui apparve sulla scena del mondo. «Go Hillary go!» grida una voce di donna. «I hope they get the bitch» ringhia un passante, speriamo che incastrino la cagna. La signora scompare nell'androne del palazzo di giustizia, una piccola, strana macchia di paillettes e lustrini che incrostano la schiena del suo cappottone inghiottito dal buio, marciando decisa verso il suo destino da Maria Antonietta o da Giovanna d'Arco. Però, come sono belli gli scandali politici americani. Come tutto sembra più importante, più divertente, più denso di storia e di segni, anche quando si tratta di volgari mazzette di provincia, come queste che hanno portato la First Lady nel palazzo che ha fatto la storia dei grandi «affaires» politicogiudiziari americani. Tutto sembra proiettato in technicolor e in cinemascope, rispetto ai filmetti in bianco e nero dei nostri scandali, recitati da cattivi attori sulla pellicola grigia di Milano e del suo Palazzaccio. Forse è solo la mia immaginazione di spettatore, ma quando ho visto la criniera dei capelli scuri tinti biondi di Hillary Rodham Clinton inghiottita da un tribunale dove mai nessuna «First Lady» aveva messo piede prima di lei, mi è sembrato di sentire le note di una colonna sonora. Comunque vada a finire, questo è già un film. «Hillary». Le piccole donne crescono. Diane Keaton o Meryl Streep nella parte della signora. Dalla Casa Bianca, per tutta la mattina, ci avevano detto che la signora era tranquilla, serena, che aveva trascorso le ultime ore d'attesa con il marito Presidente e con gli avvocati, almeno quelli che non si sono suicidati, come il suo amico Vincent Foster, o non sono stati già incriminati o chiamati alla sbarra insieme con lei, e che il marito e la figlia Chelsea l'avevano salutata con un affettuoso ma laconico «I love you» e «Buona fortuna». Dalla limousine nera che l'aveva scaricata davanti ai 4 gradini per il patibolo era scesa fra i gorilla del servizio segreto salutando con la manina la piccola folla di donne che avevano portato cartelli fatti in casa coi pennarelli, «We love Hillary». Ma se il sorriso era aperto, se i suoi magnifici capelli gonfiati dal phon della sua parrucchiera personale alla Casa Bianca erano marmorei nella felice assenza di vento e le parole rassicuranti, gli occhi, lo sguardo chiaro e freddo della signora dicevano la verità. Questa era una donna furibonda. Questa non era una pecorella condotta al mattatoio, era una tigre pronta a sbranare i suoi avversari. Nel nome della politica, delle prossime elezioni, del marito e delle donne che si riconoscono in lei. Non sapremo per giorni, forse per mesi, che cosa abbia detto davvero e che cosa le abbiano chiesto i giurati popolari che in America ascoltano gli interrogatori del giudice istruttore e poi devono decidere eventuali incriminazioni, per proteggere gli imputati. Lo sapremo, nonostante il segreto istruttorio, perché, come diceva Ronald Reagan, Washington è la sola città dell'universo dove «il suono viaggia più veloce della luce». La signora, la sola che avesse il diritto legale di parlare, non ha detto niente che non fosse ovvio, uscendo dal tribunale. Ma se al film manca il finale, il riscatto dell'eroina con musica d'archi liberatori o la caduta della bugiardona con rullo di tamburi vendicativi, una verità essenziale, e forse la più importante è già stata scritta ieri. Era scritta nel sesso dei dimostranti che avevano atteso la signora e poi si erano sgomita' ' per mostrare i loro cartelli ìielle inquadrature delle telecamere. La frattura delle opinioni correva esattamente, angosciosamente, secondo il sesso di chi reggeva i cartelli, come se la verità fosse ormai una pura questione di genitali e non di cervelli. Tutte le donne erano con Hillary. Tutti gli uomini erano contro. Sotto tutti i segni di affetto e solidarietà c'era una donna. Sotto tutti i cartelli di insulti «Bugiarda!», «E' ora di dire la verità!», «Menzogna menzogna, le mutande alla gogna!», c'era invariabilmente un uomo. Quando toccò ai nixoniani per il Watergate e poi ai reaganiani per il caso Iran-Contras salire i 4 gradini del Palazzo di Giustizia verso il patibolo, la linea di frattura fra i dimostranti correva secondo le idee e ideologie, destra contro sinistra, conservatori contro progressisti. Ieri, quando la signora con il cappotto nero ha attraversato la folla, le acque del nuovo Mar Rosso americano si sono rigorosamente separate per sessi, come nelle vecchiescuole cattoliche, maschietti da una parto, femminucce dall'altra. Hillary ha esposto, usato e subito, come nessuna altra figura pubblica prima di lei, la polarizzazione sessuale dell'America fine XX secolo. Se questo sia un grande merito rivoluzionario o una nuova mina separatista per l'America, come quella razziale, dirà il futuro. Non sarà facile, per gli avversari uomini, incastrare la signora con gli occhi di tigre che fa loro tanta paura. E non sarà facile, per le alleate donne, giustificare tutte le bugie e le mezze verità che lei ha detto soltanto con la formula passepartout del maschilismo irriducibile. Ma in quella criniera di capelli biondi che ha brillato per un istante sotto i riflettori accesi nel buio, quando la signora con il maxicappotto è uscita dal tribunale e si è rinfilata nelle limousine per tornare alla Casa Bianca, c'era un lampo di sfida. Hillary può perdere la sua guerra coi tribunali, e può trascinare il marito con sé, verso una sconfitta elettorale. Ma con lei, la storia americana ha preso un profumo di donna. E «Hillary» è un film che sarà sicuramente diretto da una regista. Vittorio Zucconi

Persone citate: Diane Keaton, Giovanna D'arco, Hillary Rodham Clinton, Maria Antonietta, Meryl Streep, Ronald Reagan, Vincent Foster

Luoghi citati: America, Iran, Milano, Washington