IL CACHET DI MACARIO: UN MILIONE E UN PANETTONE di Oreste Del Buono

Amici Maestri Amici Maestri IL CACHET DI MACARIO : UN MILIONE E UN PANETTONE Per «Comepersi la guerra», record d'incassi nella, stagione '46- '47 DOPO la guerra e la sconfitta, e più precisamente nel 1947, si verificò un avvenimento cinematografico inatteso», scrive Alessandro Ferraù nel 1965 in «Venti anni di cinema» supplemento a Cinespettacolo, mensile economico finanziario dell'industria cinematografica. «Il film di maggiore incasso della stagione agosto 1946luglio 1947 non fu L'onorevole Angelina di Luigi Zampa con Anna Magnani né La figlia del Capitano di Mario Camerini con Amedeo Nazzari, ma il film comico diretto da Carlo Borghesio e interpretato da Macario: Come persi la guerra. Nella stessa stagione, all'undicesimo posto si collocava un altro film comico: I due orfanelli di Mario Mattoli con Totò e Carlo Campanini. Il boom del comico era scoppiato. «Il pubblico italiano, finalmente, si appassionava anche alle storie ridevoli scritte, dirette e interpretate da italiani, non solo non le escludeva dalla propria zona d'interesse, ma le preferiva alla più parte della produzione comica americana fin allora dominante. La chiave del successo di Come persi la guerra consisteva nell'aver tenuto presente l'esperienza neorealista, anche se questa espressione può sembrar troppo importante in un discorso sul film comico. Dopo il successo eccezionale di Come persi la guerra, ci si convinse che il pubblico poteva "ridere italiano": mentre fin allora aveva soltanto "riso americano". Da quel momento i produttori cinematogradici - oltre Macario - utilizzarono Totò, Taranto e Govi, che non avevano in passato conseguito grandi successi cinematografici, e indirizzarono i loro film verso tre canali: ambienti e situazioni del dopoguerra, parodie di romanzi, storie imperniate su canzoni note. Infatti, tra il 1947 e il 1950, noi allineiamo tra i maggiori successi commerciali film con questioni del momento (L'eroe della strada, ancora con Macario, Totò al Giro d'Italia, Botta e risposta, con Taranto e Rascel, Totò cerca casa); film parodistici {Fifa e arena con Totò, Totò le Moka); film su canzoni del momento [I pompieri di Viggiù, con Totò e Carlo Campanini)...». Il direttore di Cinespettacolo sosteneva giustamente che lo sfruttamento del successo potè essere realizzato per la costante presenza e il possibile avvicendamento, sino al 1964, di attori comici di grossa presa sul pubblico poiché il genere comico, di norma, esige l'attore protagonista, il mattatore che magari figuri già nel titolo. E di mattatori ne abbiamo avuti tanti, e pronti a darsi il cambio. Anche oltre quel 1964 che Alessandro Ferraù, che scriveva il suo bilancio nel 1965, poneva come termine di un ciclo. E altri e altri ne possiamo aggiungere per gli anni venuti dopo. Il film comico resta lo spettacolo per cui ancora oggi gli italiani sono disposti a pagare il biglietto e a riempire le platee. E questo continua ad invitarci a una riflessione sul nostro popolo, e sulla sua ostinata vocazione a non prendere sul serio l'eterna minaccia del fallimento. Alessandro Ferraù dava le cifre degli incassi dei film di cui scriveva aggiornandole al 1965 e, quindi, attribuiva a Come persi la guerra un incasso di 882 milioni contro gli 807 déH'Onorevole Angelina e i 718 di La figlia del Capitano. Ma, anche considerando l'incasso ufficialmente dichiarato, abbiamo un 293 milioni e 750 mila lire che costituiscono una bella cifra per il 1947 e dintorni. «Con i film non facevo certo grossi guadagni: il compenso più alto è stato per Come persi la guerra, nel 1947, quando mi diedero un milione e un panettone», recita, comunque, una confidenza di Macario pubblicata sul numero 4 di Scena nel 1980, l'anno della sua morte. «Ma ne facevo soltanto uno al massimo due l'anno, d'estate, perché d'inverno non ho mai lasciato il teatro. Io sono un attore istintivo: quando vado in scena, delle volte non so neanche che cosa mi viene fuori. Quello è un dono di natura: perché la comicità non si insegna, bisogna esserci nati. E' una cosa che ti dà la natura, che ti dà tua madre, che ti dà Dio. La risata è una forza, un impulso che ti stimola i centri nervosi: suscitarla è un dono. Naturalmente poi viene il mestiere, il perfezionamento, le in¬ venzioni. Ma la comicità è una radiazione che ha l'individuo, una magia che non sa spiegare neanche chi ce l'ha...». In una delle più acide schede vergate da Rita Cirio, Piero Favari e Giovanni Buttafava per il settore «I protagonisti» di Sentimental, Almanacco Bompiani 1975, troviamo un giudizio inesorabile su Macario: «Affina la sua tecnica espressiva con occhiate furtive, una parlata piena di pause e inceppature, giocando spesso sui silenzi, una stilizzazione dialettale, tic verbali di automatismo endemico (dilagò per qualche tempo la voga della «n» innestata: "Mancario", "Tonrino", "la rinvista"). Così la sua spalla (Carlo Rizzo), sanguigno e prepotente, caricava il proprio spessore per far notare a contrasto la stilizzazione del comico. Ma questi suoi caratteri non sembrano essere stati sviluppati sino in fondo in una dimensione autenticamente "assurda" e surreale, data anche la totale quasi chiusura della cultura dell'Italietta crociana e gentiliana alle esperienze delle avanguardie europee. Per arricchire quest'immagine di partenza non può che prediletto a lungo dagli spettatori italiani non solo di teatro ma anche di cinema. La testimonianza è di Vittorio Metz, il complice di Giovanni Mosca nell'animazione prima del Marc'Aurelio a Roma e poi del Bertoldo a Milano, il cofondatore di una piccola ma suggestiva rivoluzione culturale del gusto dell'intrattenimento. «Macario è malato di umorismo», affermava Vittorio Metz nel numero 4 di Scenario del 1940. «E, quel che è peggio, non di umorismo inglese né russo né di spirito francese. Bensì di umorismo italiano. Quest'umorismo italiano che non ha che pochissimi anni di vita, che è cresciuto a poco a poco, si è sviluppato sui giornali umoristici settimanali e bisettimanali e ne ha fatto in qualche modo la fortuna, ha creato una nuova maniera di parlare, ha dilagato in tutta la penisola propagandato dagli studenti che lo sentivano più di tutti, è entrato nel teatro, nella letteratura e nella radio e finalmente con Imputato alzatevi! ha fatto il suo trionfale ingresso anche nel cinema. Quest'umorismo italiano che fa inbestialire i vecchi signori che non lo compren- critici hanno tentato di definire la sua arte o la sua mancanza d'arte. Ora io penso che Macario non si possa definire; si può tutt'al più discuterne. Macario per alcuni è un Gianduia, foderato di Charlot e imbottito di fratelli Marx. Ora, se è difficile definire Gianduia, che ha secoli e secoli di teatro dell'arte dietro le spalle, se su Charlot sono stati scritti ponderosissimi volumi, se i fratelli Marx sono difficilissimi a comprendere, figuriamoci questi tre diversi esemplari di comicità fusi insieme...». Così Vittorio Metz non ci si provava neppure. E si concentrava allora sulla descrizione dei modi di far ridere di Erminio Macario, partendo dalla constatazione che in certi casi il comico gli pareva un pupazzetto da vignetta. Era, infatti, l'unico comico che potesse dire impunemente sulla scena le stesse cose che sono scritte in due righe sotto i disegni dei giornali umoristici. Queste due righe erano il risultato delle sedute di redazione legate a una specie di rito come risulta dalla descrizione della prima seduta del Bertoldo che fa Cadetto Manzoni ne Gli Anni Erminio Macario nella locandina delfilm «Comepersi la guerra», diretto da Carlo Borghesio ricorrere a variazioni zuccherose ottocentesche... Nasce così un omino fra angelico e piagnucoloso che "usa" il proprio candore con calcolato vittimismo, inevitabile che emerga anche l'altro volto, tartufesco, di malcelato egoismo della mentalità chiusa e bigotta di certa "provincia addormentata"... Questa ambiguità melensa e scivolosa del personaggio giustifica anche la sua presenza nella cornice "femminile" delle sue riviste: le sue "sudicerie", solo allusive e mai liberate, le sue battute salaci ma sempre ricacciate in gola, il suo strizzar l'occhio al pubblico sono rivelatori di tutto un costume italiano di una generazione allevata tra oratorio e raduni di balilla. Più che la sua ultranota caratteristica di maschera quasi fuori dal tempo è interessante notare questa sua componente legata ad un costume storico...». Più che un giudizio, è un'esecuzione, ma resta da spiegare il perché quest'omino così esecrabile per Rita Cirio, Pietro Favari e Giovanni Buttafava sia stato Lo straoì pr«ridere dono, che fa urlare di rabbia i critici che non riescono a definirlo e fa campare abbastanza bene quelli che lo hanno inventato. Macario è appunto la personificazione teatrale di quest'umorismo che alcuni definiscono "intelligente", che altri definiscono "idiota" e che, forse, non è altro che un'idiozia intelligente...». La testimonianza di Vittorio Metz era naturalmente interes- Lo straordinario successo del film convinse ì produttori che il pubblico poteva «ridere italiano», non solo «americano» sata dato che lui figura come cosceneggiatore dei film di Macario come di quelli di Totò. Vittorio Metz parlava di Macario, ma non solo di Macario e parlava per Macario e non solo per Macario. «Si è detto che Macario è un clown, come si è detto che Macario è una maschera. Si sono scomodate le grandi ombre di Petrolini e Ferravilla, si è parlato di "fenomeno Macario", si è portato questo comico alle stelle, lo si è voluto demolire, centinaia di convinse eva icano» Verdi del Bertoldo (Rizzoli, 1964): «Ci mettiamo tutti a sedere intorno al tavolo: i direttori Giovanni Mosca e Vittorio Metz poi Andrea Rizzoli, Angelo Frattini, Dino Falconi, Giuseppe Marotta, Mario Brancacci, Marcello Marchesi, Mario Bazzi, Giaci Mondaini, Mario Ortensio, Walter Molino, Rino Albertarelli, Ferdinando Palermo e io. Mosca e Metz buttano fuori battute per le vignette, una dopo l'altra, e noi stiamo a guardare sbalorditi. Andrea è entusiasta e ride. Frattini si scandalizza alle frecciate contro le vecchiette e i paralitici. Falconi sembra perplesso e Maratta diffidente. La barba nera di Bazzi sussulta con gioia. La fronte di Brancacci si riempie di goccioline di sudore. Brancacci tira fuori una battuta in romanesco e fa subito presa sui direttori, che si divertono a tutto quel che dice. Io cerco di parlare romanesco, ma ci rinuncio...». Un rito destinato a ripetersi con ovviamente l'aggiunta organizzatrice di Giovannino Guareschi, assente giustificato alla prima seduta perché in servizio milita¬ re. Le sedute, due la settimana perché il Bertoldo era bisettimanale come il Marc'Aurelio erano un'orgia di parole e culminavano nella scelta delle battute e nel loro affidamento ai disegnatori incaricati di dar vita ai pupazzetti. Del pupazzetto da vignetta Macario aveva tutto, pareva proprio disegnato, e lo era con quella testa, che Ettore Petrolini, che aveva voluto conoscerlo, aveva giudicato favorevolmente: «Ma perché devi tenere quel parrucchino con quella frangetta? Hai una testa che vale un milione!» e lui, ubbidiente, si era tenuto la sua testa da mi milione, ma s'era fatto il ciuffetto, meritandosi la qualifica di «uomo col ricciolino». Ed era ima testa rilevante non solo per l'aspetto, ma anche per il contenuto. Altroché. «L'associazione di idee e la sua arma più formidabile - ammira Vittorio Metz nella testimonianza già citata -. Dire cioè una cosa lontanissima come significato da quella che veramente vorrebbe dire. Per esempio: Macario, disperato, vuol andare a gettarsi nel fiume, ma, siccome ha paura, lo dice a un suo amico, sperando che lo trattenga dal compiere l'insano proposito. Ma l'amico, l'immancabile Rizzo, non lo trattiene. Macario si avvia verso il fiume, ma, ad un certo punto si volta: "Non mi trattieni?". "No...", "Proprio per niente? Proprio per niente?", "Ma no, ti dico!", risponde Rizzo, il cui compito principale consiste appunto nel dire, durante tutta la sera: "Ma no!", "Ma come?", "Ma che dici!", "Ma che ti salta in testa!", per dar agio a Macario di dire la battuta. Una bella fatica! "Proprio no?", "Ti dico di no...", Macario fa un passetto, poi si volta: "Manica, manica?", "Ma che dici?", ruggisce Rizzo. "Sì, non mi trattieni nemmeno per la manica?". Nessuno pensa che Macario, dicendo "Manica, manica" possa voler significare: "Se non mi trattieni nemmeno per la manica?". Può pensare, tutt'al più, allo stretto che divide la Francia dall'Inghilterra e nel quale oggigiorno non è consigliabile navigare. Oppure non sa dove voglia andare a parare. Non si tratta di una battuta. Si stratta di una sorpresa. Sorpresa che agisce come un solletico mentale e fa ridere il pubblico, magari suo malgrado. Ed è per questo che molta gente, come quelli a cui è stato fatto il solletico, dopo aver riso di ciò che dice Macario, per tutta una sera, esce dal teatro arrabbiatissima e magari indignata contro se stessa per aver riso...». Vittorio Metz nel 1940, anno in cui non era consigliabile navigare nello stretto che divide la Francia dall'Inghilterra, dato che c'era la guerra, si chiedeva perché la gente ridesse alle parole di Macario, non quando lui deformava le parole introducendo dappertutto la «n» e dicendo «ripetizione per ripetizione» e «anforisma per aforisma», e allora il riso era normale come davanti al balbettio dei bambini e neppure quando a forza di «n» scambiava addirittura ima parola con un'altra dicendo «sempre scampolo, sempre scampolo» invece di «sempre scapolo sempre scapolo?», ma anche quando Macario si limitava a ripetere semplicemente una stessa parola dicendo: «Stai male, stai male?» o «lume lume?». Nessuno trovò la risposta allora e neppure la trovò quando nel 1947, consumato il secondo conflitto mondiale, Macario tornò a ripetersi nel film Come persi la guerra, campione d'incassi. Il regista era lo stesso del suo primissimo film: Carlo Borghesio, già direttore degli stabilimenti cinematografici torinesi della Fert, sceneggiatore e regista per Oreste Biancoli e Mario Soldati. Lo sceneggiatore fu Leo Benvenuti. A Come persi la guerra seguirono con lo stesso regista e lo stesso sceneggiatore L'eroe della strada (1948), Come scopersi l'America (1949) e II monello della strada (1950). Ma, ormai, il cinema comico era sotto il tallone di Totò. «Certo non era Totò, Macario», scrisse in occasione della sua morte su la Repubblica del 28 marzo 1980 un critico di teatro e cinema fine e agguerrito come Tommaso Chiaretti, «ma sere fa lo abbiamo visto accanto al principe De Curtis nel Monaco di Monza e gli teneva testa con sicurissimo senso dei tempi, con una puntuale svanitaggine che voleva, però, avere sempre l'ultima battuta...». Oreste del Buono