Un tuono: c'è Coppi in Gazzetta di Roberto Beccantini

Da bibbia dei tifosi a fenomeno na2ional-popolare: le avventure e i protagonisti del giornale nato nel 1896 Da bibbia dei tifosi a fenomeno na2ional-popolare: le avventure e i protagonisti del giornale nato nel 1896 Un tuono: c'è Coppi in Gazzetta Cent'anni di emozioni e sport in rosa EMILANO E la preghiera del mattino dell'uomo moderno è la lettura del giornale, da cent'anni la Gazzetta dello Sport rappresenta una delle orazioni laiche più diffuse. Tutto, della sua storia, concorre ad alimentare il mito. Figlia di mamma torinese (La tripletta) e papà milanese (Il ciclista), venne al mondo il 3 aprile 1896, a Milano, tre giorni prima dell'apertura ufficiale delle prime Olimpiadi dell'era moderna, ad Atene. E poi il nome, Gazzetta: una moneta d'argento, prezzo di uno dei primi giornali apparsi a Venezia alla metà del '500. Per tacere della carta: dal verde pallido delle copie inaugurali (costo, cinque centesimi; tiratura, ventimila esemplari) al rosa della tradizione. La Gazza (o, appunto, la rosea) ha raccontato lo sport tirandone su i muri maestri, soprattutto nel ciclismo, a cominciare dal Giro di Lombardia, dalla Milano-Sanremo e, naturalmente, dal Giro d'Italia, la cui idea scatenante, nel 1909, venne letteralmente scippata al Corriere della Sera, di vent'anni più anziano e così signore da offrire, digerito lo «smacco», un premio di tremila lire. Un posto d'onore, fra i proto-inviati, spetta di diritto a Carlo Airoldi, il podista milanese che si fece a piedi i 1338 chilometri da Milano ad Atene per partecipare alla maratona olimpica, salvo esserne escluso per leso dilettantismo: ai greci, giudici (allora) inflessibili, risultava che le sue comparsate a questa o a quella sagra paesana fossero profumatamente retribuite. L'Airoldi scrisse alla Gazzetta parole accorate sul suo destino, usando termini (cinico e baro) che avrebbero resistito all'usura del tempo. Questo è colore. Testimone di un secolo, il giornale ha cavalcato tutti i grandi eventi. Anche le guerre. L'archivio è una miniera. Memorabile la prima pagina con la quale una Gazzetta insospettabilmente interventista, e clamorosamente preveggente in materia di lessico politico-calcistico, annuncia e chiosa la nostra «discesa in campo» nel maggio del 1915: «Per l'Italia, contro l'Austria, hip hip hip, hurrà!» Non solo: prima e dopo Caporetto, ma soprattutto dopo, essa veniva inviata al fronte e distribuita gratis ai soldati: che almeno si rifocillassero gli occhi. Quotidiano dal 1919, e dal 1929 a oggi di proprietà dei conti Bonacossa, gens patrizia, di solido ceppo polisportivo, la barchetta rosa è diventata, via via, incrociatore e poi portaerei, teletrasmessa in Italia e in mezza Europa, punto di riferimento assoluto per agonisti e voyeurs. Scesa a patti con il futuro, non ha mai sconfessato le sue radici, contribuendo, ci piace pensarlo, alla nascita e alla diffusione di altri fogli (Tuttosport a Torino, Stadio a Bologna, Corriere dello Sport a Bologna e poi a Roma). Due le travi portanti, intorno alle quali si è cementato il rapporto, narrativo, con lo sport e il pubblico: il ciclismo e il calcio. Potrà sembrare una forzatura della memoria, se non, addirittura, un artificio dell'enfasi, ma per chi ci ha lavorato (meglio ancora: per chi ci ha «giocato») il mitico cortile della sede di via Galilei costituisce una sorta di ((Apriti, Sesamo». Il rimbombo assordante di quell'unica rotativa che i trionfi di Coppi e Bartali al Tour tenevano sveglia, e operativa, sino alle 9 del mattino. E l'eco dell'applauso (prima un semplice brusio, quindi un avviso di temporale, infine il rombo di un tuono) che accompagnava l'avvento, per il rito della punzonatura, degli eroi sommi, Fausto e Gino, alla testa delle rispettive squadre, dall'Andreola, l'albergo scrigno, l'albergo presepio a due passi dalla stazione centrale, su per via Fabio Filzi, sino allo spiazzo dei sogni, simbolo romantico di un viaggio, di un'avventura che scaldava i cuori e incendiava le ugole per l'ecumenismo dell'afflato. Non è stato facile diventare «la» Gazzetta. Per questo, è stato ancora più bello. Gli errori, le occasioni mancate l'hanno aiutata a cresce- re. Nei primi Anni 50 i creatori francesi della Coppa dei Campioni di calcio ne offrirono l'alto patrocinio alla famiglia Vismara, di stretta osservanza de, che il cardinale Schuster aveva imposto ai Bonacossa per evitare che il giornale, alla ripresa delle pubblicazioni dopo la seconda guerra mondiale, finisse nelle mani del partito socialista. I Vismara rifiutarono, sottovalutando l'impatto che quella «strana» creatura, ai primi vagiti, avrebbe avuto sulla pelle del calcio europeo. E un rifiuto, altrettanto netto, fu posto alla richiesta di stampare in Gazzetta le prime schedine della Sisal, l'odierno Totocalcio, il concorso che, più di tutti, ha rivoluzionato l'espandersi dello sport e le abitudini degli italiani. Altri tempi, squisitamente artigianali. E poi i direttori. La storia della rosea è il loro magistero. Dai primissimi - Eugenio Camillo Costamagna, studente in Lettere, ed Eliso Bàvera, avvocato - agli altri: Emilio Colombo, il trascinatore; Bruno Roghi, il poeta-pianista; Emilio De Martino, cui Indro Montanelli deve il suo innamoramento per la Gazza; Giuseppe Ambrosini, il tecnico; Gianni Brera, il più solista di tutti; Gualtiero Zanetti, il politico; Gino Palumbo, il rivoluzionario; Candido Cannavo, il continuatore, in carica da 13 anni. Ogni fondo di Zanetti, l'indimenticato Gualtierino, faceva tremare il Palazzo. Ma per i celeberrimi sei minuti di Rivera in Messico, un episodio che avrebbe diviso il Paese, non un titolo «in diretta», non un commento, ma semplicemente l'asettica registrazione nel tabellino e nella cronaca dell'inviato Cannavo: «Entra Rivera al 38' (del secondo tempo) al posto di Boninsegna, dopo che Albertosi è uscito pericolosamente sui piedi di Everaldo, causando un calcio d'angolo». Prestigio, linguaggio, formula, grafica. L'anno santo è il 1976. Gino Palumbo, riveriano incallito e, di conseguenza, anti-breriano dichiarato, sale alla direzione, s'insedia in via Solferino e trasforma non solo il giornale, ma tutto il giornalismo sportivo. Volgarizza l'analisi tecnica, adotta i fatti supremi della politica e della vita, lancia lo spogliatoio, prende il lettore per mano (anche troppo) e lo erge a protagonista. La Gazzetta bibbia, la Gazzetta strumento di controllo e di pressione si trasforma, piano piano, in un immenso calderone nazional-popolare. Tutti la copiano, le vendite s'impennano, favorite da risultati strabilianti, come, per esempio, il titolo mondiale dell'Italia bearzottiana. Negli Anni Ottanta, la Gazzetta tocca tirature record e diventa il giornale italiano più diffuso, unico caso al mondo di quotidiano sportivo che dà la paga a quelli d'informazione. Oggi non lo è più. Il moloch televisivo, da troppi blandito e, all'inizio, sottovalutato, ne ha corroso il bacino d'utenza. La stampa sportiva è in crisi. Ci vorrebbe un colpo d'ala. Non è facile. Chi scrive, rimpiange la penna di Gianni Brera, Bruno Raschi e Renato Morino. Cantavano lo sport, trasmettendo emozioni. Oggi la gente ha fretta, imbottita com'è di moviole e sbrodolate televisive. Neppure la Gazzetta dei cent'anni può guardarsi indietro. Del resto, proprio le grandi sfide, le grandi svolte, sono state il suo pane, la sua bandiera. Gli uomini del Duemila, al mattino, «pregano» sempre di meno. In tutti i sensi. Roberto Beccantini Tirature record negli Anni 80 E oggi la sfida con la moviola a ns lal ti i Coppi e Bartali; ad ogni Giro d'Italia i campioni andavano al giornale con le loro squadre per il rito della punzonatura