Dell'anima e del cervello

Dell'anima e del cervello Dell'anima e del cervello CHI analizza sperimentalmente il funzionamento del sistema nervoso si trova di fronte a un problema che sostanzialmente riguarda ogni essere umano. I progressi delle conoscenze nello studio della struttura e della funzione del cervello portano a concludere che anche le nostre facoltà più nobili e raffinate come il pensiero, la memoria, la volontà, sono dovute all'attività delle cellule nervose (neuroni) che costituiscono la massa del cervello. Certo non conosciamo ancora molti aspetti del funzionamento di queste cellule, e ancor meno sappiamo come, dai loro insiemi organizzati in centri, gangli, aree e così via, scaturiscono i processi mentali. Si è nella situazione di un ingegnere il quale, pur se inesperto di computer, abbia scoperto che il suo funzionamento si basa su una fonte di energia (la corrente elettrica), un insieme di elementi (microchip) di cui conosce la composizione e il modo di funzionare organizzati in reti di comunicazione capaci di elaborare l'informazione ed eventualmente di memorizzarla, e infine di un programma per utilizzare il funzionamento di quelle reti. Insomma, pur non conoscendo come è organizzato nei dettagli quel computer, e tantomeno come funziona quel programma (il cosiddetto software), l'ingegnere sa che in esso non vi è nulla di miracoloso, anche se le sue prestazioni sono formidabili. Ora, se possiamo concludere che il pensiero, la coscienza e tutte le altre nostre facoltà «intellettuali» sono proprietà che scaturiscono dall'attività dei nostri neuroni, dobbiamo concludere che esse si dissolveranno con l'arresto del funzionamento del cervello, cioè con la morte. Sembra una conclusione sconsolante quanto ovvia, e tuttavia ho avuto modo di osservare che essa si scontra con opinioni o preconcetti vari. I credenti di numerose religioni spesso effettuano una specie di identificazione o di sovrapposizione tra il concetto di anima, quello di autocoscienza e quello di pensiero in generale. E poiché, attribuiscono proprietà immateriali all'anima, sono portati ad attribuire uguali connotati anche a quell'insieme di processi nervosi che ci permettono di pensare e di essere coscienti, al tempo stesso, di quest'operazione. Ciò che allevia di più la sofferenza terrena è la speranza che una volta liberati dal fardello del corpo potremo sempre godere della nostra identità spirituale fatta di pensieri, memorie, affetti che potranno ricongiungersi con quelli già presenti nell'aldilà. E' chiaro, quindi, che attribuire «materialità» a questi stati mentali equivale a negarne la sopravvivenza al corpo. Questa identificazione fra il concetto di anima e quello di pensiero in senso lato è in fondo modificabile, poiché, una volta chiarito l'equivoco semantico, il credente avrà modo di riappropriarsi del concetto di anima immortale dissociandone le origini e il significato da quel¬ lo del pensiero come oggi viene inteso. Anche se questo muore con il corpo, l'anima, che è immateriale, soprawiverà in eterno. Ma se per il credente questo dilemma è risolvibile con la fede, questa fuga non è comprensibile per una vasta schiera di studiosi laici che, pur non credendo nell'esistenza di un'anima in senso religioso, sostengono una netta dicotomia fra quelle che si definiscono attività cerebrali (il movimento di una gamba, la percezione di un suono) e attività «mentali» come, appunto, il pensiero e l'autocoscienza. Ciò non stupisce se consideriamo che gli stessi testi enciclopedici, a partire da quello espressione dell'illuminismo più classico, fino a quelli moderni, compiono quella già definita come confusione semantica. La definizione dell'anima che più di frequente si trova, infatti, è questa: «origine e centro del pensiero, del sentimento, della volontà e della stessa coscienza morale». Si possono trovare versioni differenti, ma di solito vi è sovrapposizione fra il concetto di anima e quell'insieme di attività cerebrali che definiamo come pensiero. Non a caso il mondo della medicina, a livello accademico, è ancora diviso in due corpi di insegnamento distinti e talvolta in contrasto: gli psichiatri, con le numerose varianti basate sulla parola psiche (psicologi, psicoanalisti) ed i neurologi, che si occupano delle attività cerebrali. La tesi della dicotomia mente/ cervello costituisce, a mio avviso, una variante laica della confusione operata dai credenti fra mente e anima. Sia chiaro, ancora oggi filosofi e scienziati di grande valore sostengono questa dicotomia e vi sono teorie scientifiche sulla natura dei processi mentali che si ispirano alla teoria dei quanti, nata dalla fisica e divenuta una quasi metafisica impiegata anche per interpretare i processi mentali. L'insistenza su questo atteggiamento, tuttavia, ha un riflesso concreto, un impatto talvolta spiacevole nella vita quotidiana di molti esseri umani che soffrono di malattie che colpiscono il cervello. Perché finché si continuerà a sostenere questa dicotomia, vi saranno neurologi che saranno orientati a trattare esclusivamente con farmaci anche le più complesse affezioni che colpiscono il pensiero e gli umori. E vi saranno psichiatri o psicoanalisi che, sulla base dell'assunto che i processi mentali non hanno base materiale, si ostineranno a trattare pazienti che soffrono di malattie inequivocabilmente dovute a cause «organiche» con terapie basate esclusivamente sul colloquio. E' giunto il tempo che questi due schieramenti non si contrappongano più e concepiscano insieme degli incontri nei quali non si dibattano più questi problemi come se si trattasse di dogmi religiosi, ma come dilemmi scientifici da affrontare con la sperimentazione. Pietro Caiissano Il Università di Roma a Tor Vergata

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