Lilli, il Generale dei messaggi in bottiglia Dall'Africa al Vietnam uno straordinario inviato-scrittore di Virgilio Lilli

Lilli, il Generale dei messaggi in bottiglia Duro, colto, ambizioso: a vent'anni dalla morte, ricordo del grande giornalista Dall'Africa al Vietnam, uno straordinario inviato-scrittore L A sera andavamo al Cinema Rex. Lui, Virgilio Lilli, alloggiava all'Astor, io al Caravelle. Passava a prendermi sempre in ritardo sull'ora fissata, poiché i pezzi che spediva al Corsera prima li scriveva a mano, con una stilografica Pelikan, poi li ricopiava a macchina, miìne li riassumeva telegraficamente. Allora, nella primavera del 1965, noi inviati a Saigon (Vietnam del Sud) i servizi dovevamo affidarli al telegrafo. Non c'era la teleselezione, allora, e neanche il telex, c'era. Riusciva difficile, allora, onorare la (cinica) massima dei grandi inviati speciali: primo trasmettere secondo vedere - terzo scrivere. Difficile psicologicamente, voglio dire, dal momento che consegnando i nostri lunghissimi articoli in stile telegrafico («amb usa habet oggi detto dupunti virgolette non sonci limiti escalation virgolette chiuse puntacapo») avevamo la sensazione, netta, di affidare il famoso messaggio alla famosa bottiglia. La sera andavamo al Rex semplicemente per uscire dalla guerra. Che, poi, sarebbe arrivata anche a Saigon, dentro quella puzzolente bellissima città stupenda: così marcia, così pura, così dolorosa, così solenne e buona Saigon. Dopo il film, a Cholon, a mangiare un boccone. Tornavamo in centro (i nostri alberghi erano nella vecchia Rue Catinat, ribattezzata Tu-Do) a piedi. E finalmente parlavamo. Anzi, era lui a parlare. Noi «giovani» inviati portavamo rispetto ai «vecclii». Chiamavamo Lilli: Maestro, così come chiamavamo Maestro Paolo Monelli, e Scotty Reston, e Luigi Barziri junior, e Vittorio Gorresio eccetera. Allora Lilli aveva soltanto 57 anni ma è come ne avesse avuti 200. Aveva «fatto» la guerra d'Africa, la guerra di Spagna, la grande guerra (la seconda). Aveva «fatto» la tragedia cinese e infinite altre guerre e tragedie collettive aveva «fatto», Lilli. Era un uomo alto e robusto, un Clark Gable mezzo umbro, mezzo calabrese; sfoggiava un eloquio rapinoso, era colto e versatile (dipingeva quadri nient'affatto banali), 2 passo aveva insistito e fresco eppure era come ne avesse avuti 200 di anni. Ebbene, quell'uomo giovine ma vecchissimo perché pieno di cicatrici, ne aveva una più terribile di tutte: la morte immatura del figlio Alberto, diplomatico a Nizza. Tornando a piedi da Cholon a Saigon - mia lunga strada -, Lilli mi parlava di Alberto: bello, colto, raffinato. Parlava del figlio perduto con amaro strazio. «Per fortuna, ho la "piccola"», sorrideva. La piccola era la figlioletta che gli aveva dato Pucci, la sua seconda amatissima, giovine moglie bionda. «Pucci - mi diceva tenero Lilli -, rimarrà sempre una bambina, invece lei, Marina, è matura. Tremendamente matura per la sua età». E mi leggeva brani delle lettere della «piccola» (per l'altra figlia, Laura, sorella di Alberto, aveva un'enorme, orgogliosa ammirazione). Questo accadeva la notte. Durante il giorno Lilli spariva nel caldo astioso. Se lo avessi incontrato forse non l'avrei riconosciuto. Duro, figlio di puttana, desideroso solo e soltanto di dare la fregatura «alla concorrenza» (tale e quale Gibò Barzini, tale e quale Max David eccetera, tutti i Maestri nostri, conieristi e non, così erano ma, qualche volta, il destino li puniva e la fregatura la prendevano loro). Lilli ed io ci conoscevamo da anni. Quell'abile direttore-editore che fu Renato Aigiolillo lo aveva assunto nell'immediato dopoguerra a Il Tempo come vice-direttore e commentatore: firmò Ulisse prima di recuperare nome e cognome. Fece, quindi, l'inviato per La Stampa, mime tomo al suo Corrierone. Lilli sorrideva affabile, sempre. Aveva un sorriso per tutti, sempre, eppure teneva in scarsa considerazione il suo prossimo-giornalista. Consapevole della propria cultura, conscio della sua bravura, battezzato subito dal successo, si prendeva veramente sul serio. Una volta disse a un giovanissimo reporter che se il giornalismo fosse stato co¬ me l'esercito, lui, Lilli, avrebbe avuto i gradi di generale mentre «Tu "gianduiotto"» i gradi di caporale soltanto. Un'altra volta assistetti, allibito, a una telefonata di Lilli col suo direttore, ch'era, in quel tempo, Missiroli. Eravamo nella sua stanza d'albergo (a New York, mi pare) e forse lui recitò un po' per me; sia come sia disse, a Missiroli: «lo sono Virgilio Lilli e so cosa è fatto bene, cosa non ò fatto bene mentre lei, egregio "dottor Missiroli" dubito che lo sappia», e chiuse il telefono. «Cosa è fatto bene - cosa non ò fatto bene». Missiroli sollecitava «più notizie» mentre per Lilli la notizia, il fatto erano soprattutto il pretesto per raccontare (magistralmente) una storia. Conservo una copia con dedica (invero affettuosa) del suo celeberrimo Racconti di una guerra, stampato da Bompiani nel '41 e da me trovato nel 1948. Elvira Sellerie ha ristampato recentemente il libro ed io invito i giovani giornalisti a comprarlo: per leggerlo - chiosarlo - meditarlo. Ebbene in quel libro Lilli dice che l'essenza delle sue corrispondenze «è frutto immediato della osservazione della realtà, e traduce la realtà meglio e più che una cronaca geli¬ damente oggettiva. In questo senso esse sono più vere del vero». Lilli trasfigurava la realtà; molte sue corrispondenze hanno cadenza rapsodica e brillano di quel realismo magico (alla Bontempelli, alla Rosso di San Secondo) che subisce la cronaca per ossessivamente inseguire la poesia. Aveva uno stile tutto suo che, nella seconda fase della sua vita di grande inviato-scrittore (dal dopoguerra al giorno della morte, il 16 di gennaio di vent'anni fa) si impreziosì, avendo egli scoperto Saroyan, fino a diventare una sorta di nenia, di scrittura-nenia, una lunga melodia preziosamente scandita. Dalla Spagna così scrisse mi giorno: «Domandai all'autista: "Come ti chiami?". L'autista disse: "Mi chiamo Jesus", e pronunciò Hésùs, alla spagnola. "Hésùs?" dissi -. "E che significa?". Rispose con qualche fierezza: "Significa Cristo". Il mio autista si chiamava Gesù. Con Gesù al volante, dunque, io andavo verso (...)». Con Gesù al volante sarà, infine, arrivato a Gerusalemme. Quella di Gesù, dico, in cui Lini credeva. Magari a suo modo: Gesù-autista, appunto. Con lui, Virgilio Lilli, accanto; beninteso. Igor Man Lilli, il Generale dei messaggi in bottiglia Virgilio Lilli