A un passo dalla preda di Vittorio Zucconi

Quali costi avrebbe comportato la cattura della capitale Quali costi avrebbe comportato la cattura della capitale A un passo dalla preda E* WASHINGTON stato onesto George Bush ad ammettere nella sua intervista quel che tutti, generali, soldati, corrispondenti di guerra, sapevamo benissimo e sentivamo nelle ossa, quella mattina gelida del 28 febbraio 1991 fra le dune del Kuwait disseminate di cadaveri carbonizzati e di rottami di panzer iracheni. Che la «Tempesta nel deserto», la crociata per liberare il Kuwait e per distruggere l'«Hitler della Mesopotamia», stava finendo maluccio, in un mezzo trionfo militare senza vittoria politica, e che Saddam Hussein avrebbe potuto sfacciatamente proclamarsi vincitore per il semplice fatto di essere sopravvissuto. Oggi infatti, a cinque anni esatti dal primo attacco aereo su Baghdad che cominciò proprio la notte del 16 gennaio, i grandi avversari del «Raiss», George Bush, Margaret Thatcher, Mikhail Gorbaciov, Francois Mitterrand, sono morti o scomparsi dalla scena politica, mentre Saddam continua a tiranneggiare imperterrito il suo disgraziato Paese, ulteriormente ringalluzzito dalla rinascita a Mosca del suo grande amico e protettore degli anni sovietici, il nuovo ministro degli Esteri russo Evgenij Primakov. L'«errore di calcolo», come riconosce ora Bush, compiuto da lui e da Colin Powell impedendo alle divisioni vittoriose di Norman Schwarzkopf di dare il colpo di grazia alla Guardia Repubblicana, la spina dorsale del regime, era apparso evidente a tutti, sul campo. E sarebbe apparso ancor più doloroso pochi giorni più tardi, quando i reggimenti di carri armati e gli elicotteri risparmiati per ordine di Bush sarebbero stati usati dal dittatore per massacrare prima i ribelli sciiti a Bassora e poi gli irredentisti curdi sulle montagne. Dal punto di vista militare, il cessate-il-fuoco imposto da Bush e Powell dopo 100 ore di campagna non aveva senso, e i generali americani si misero a ridere quan- do ricevettero l'ordine da Washington credendolo uno scherzo, e Schwarzkopf a urlare di rabbia. Ma nessuno, neppure noi che dal deserto ci aspettavamo la marcia finale e trionfale su una Baghdad ormai indifesa, poteva dire allora, e può dire adesso, che cosa sarebbe accaduto se la coalizione avesse chiuso il pugno attorno alla Guardia Repubblicana e avesse conquistato la capitale. Tutte le guerre sono sempre facilissime da cominciare e difficilissime da finire, e questa nel deserto stava rapidamente trasformandosi in un massacro. Le divisioni irachene di prima linea si stavano arrendendo in massa o fuggivano disordinatamente sotto il «tiro al piccione» degli aviatori alleati, padroni assoluti del cielo. Le unità scelte della Guardia Repubblicana non erano in grado di opporsi ai corazzati americani, troppo superiori per qualità di mezzi e di uomini. Le telecamere e i satelliti, non più accecati dalla censura militare del Pentagono, cominciavano a diffondere nel mondo le immagini sconvolgenti di una lotta ormai impari e non più asettica come i bombardamenti delle armi «intelligenti», ma sporca, stupida, tragica, umana come i cadaveri dei carristi e dei guidatori di autocarri carbonizzati al volante dentro i loro mezzi. E non c'erano garanzie che altre vite alleate non sarebbero state perse nella corsa a Baghdad e nella caccia a Saddam. Un mondo che aveva dato con grande riluttanza il suo appoggio a Bush perla «stangata» al tiranno della Mesopotamia si sarebbe rivoltato, gli antichi e mai esorcizzati zombi ideologici dell'antiamericanismo e de! terzomondismo si sarebbero rialzati prepolenti, l'America avrebbe forse snidato e catturato Saddam in uno dei suoi bunker ma avrebbe poi ereditato un'intera nazione da occupare, amministrare, finanziare e ricostruire. Il trionfo militare completo sarebbe divenuto un incubo politico. E tutto questo, soltanto per eliminare Saddam. George Bush, come sempre una persona per bene, merita la nostra stima nel riconoscere che le sue speranze, le sue illusioni di una caduta spontanea di Saddam erano infondate e che la vittoria americana nel deserto fu sicuramente una «vittoria mutilata». Ma se è possibile criticare il Bush stratega, nessuno può obiettare al suo atto conclusivo. La storia è piena di farabutti che hanno cominciato guerre. Ma pochi, e sempre benedetti, sono coloro che hanno saputo finirle. Vittorio Zucconi Pochi uomini hanno saputo finire un conflitto in tempo