Figurine italiane nella camera oscura

Al Castello Sforzesco una rassegna narra cent'anni di storia attraverso i ritratti Al Castello Sforzesco una rassegna narra cent'anni di storia attraverso i ritratti Figurine italiane nella camera oscura Le pose slavate della Duse, l'amico nudo di D'Annunzio w| MILANO I L «soggetto» da fotografare I sta issato su un piedistallo I marmoreo degno di un mo_AJ numento alla memoria: si è afflosciato come sulle zampe, ma il muso bisognoso di affetto e di carezze si protende sospirante verso qualcosa che non vediamo, e che si direbbe una zuppa odorosa e promettente. E' invece il fantasma occultato di quella magia prodigiosa della modernità, che sta sempre alle spalle di ogni «posa» stampata e che possiamo soltanto sospettare: l'apparecchio fotografico e quella silente vestale che farà clic. L'immagine 1865 immortala «un blessé de Mentana»: un povero cagnino vittima delle violenze risorgimentali, ancora vegeto e festoso, ma azzoppato e degno d'una celebrazione patriottica. L'articolata mostra «L'io e il suo doppio. Un secolo di ritratto fotografico in Italia», aperta sino al 3 marzo al Castello Sforzesco di Milano, può anche incominciare ironicamente così, da questo buffo surrogato del volto italiano, presente nel catalogo Alinari, ricco di numerosi contributi. Ecco invece in mostra l'incredibile icona di quel cagnone gonfio come un vitello, che ha detronizzato il suo reverente padrone dal suo soglio domestico di cuoi e nappine, e questi, con i suoi baffi a manubrio e l'allure glicerinosa alla Edmondo De Amicis, si affaccia dignitoso al proscenio della poltrona, omaggiando distintamente la zampa protesa. L'intento di questa cavalcata attraverso volti mutanti e mutevoli d'un'Italia inscatolata entro pochi centimetri di supporto fotografico è proprio quella di raccontare - anche antropologicamente - il variare d'un mondo. Variare parallelo a quello della tecnica, che dai primi ateliers soffocato di ninnoli e frananti tendaggi (attraverso il rinnovarsi delle materie, dagl'ultimi dagherrotipi alla stampa su porcellana, dai ferrotipi ai sali d'argento al resistente collodio) giunge, grazie anche al lavoro itinerante dei «cassettisti» ambulanti, alle immagini rubate, istantanee dei nostri giorni paparazzi. Proprio sul finire dell'Ottocento, quando di moda era divenuto mostrare anche nelle Grande Esposizioni il lavoro umile ma promettente degli alchimisti fotografici, quell'originale eccentrico che fu Yorick scriveva di una «giovinetta leggiadra» che «è già troppo inframmettente, troppo petulante, e ha lo sguardo troppo acuto». «L'obiettivo della macchina fotografica vi scorge, voi Tal dei Tali, in mezzo a centomila individui, vi segue, vi perseguita, aspetta che facciate la smorfia caratteristica, il gesto nevrotico e crac... vi scaraventa sulla lastra». Non è un caso che della fotografia si occupassero criminologi e positivisti, come Lombroso e Mantegazza o come quel commentatore, citato da Paolo Costantini, che lamentava: «Quasi dobbiamo temere di non avere più segreto, per questa terribile rivoluzionaria, che scruta l'interno del nostro corpo e minaccia, se non arrestiamo la sua marcia trionfale, di rivelare al pubblico i battiti del nostro cuore, i pensieri della nostra mente». An- che un letterato come Thovez si era infatti reso conto precocemente che la fotografia non è sinonimo di esattezza, di meccanicità riproduttiva, ma anzi, «di una parvenza poetica di sogno», che isola le cose «dalla realtà contigua e le fissa nella loro entità poetica». La storia del ritratto fotografico italiano, anche quando si libera dal pittoricismo più smaccato, dai flou burrosi e stearici delle immaginette aristocratico-votive di Ghitta Carrel, degli evidenti trucchi solarizzati o dei ritocchi con la gomma bicromata dei troppi maestri «miglioratori», giochi di luce e astuzie scenografiche, è comunque una storia di rigorosa messa in scena, di impostazione della «voce» figurale, di teatralizzazione della posa estetica, quasi estatica. E non soltanto quando si immortalano le Lyda Borelli o le Irma Gramatica, o quando la Duse si lascia slavare come un pianto sconfortato, come una pelliccetta tarlata dall'obiettivo di Steichen (mentre nel dialogo con la «matita» fotografica di Nunes Vais ha un atteggiamento intenso, réveur, puntuto, «dedicato» a D'Annunzio). Ma anche quando s'infilza la passeggiata di gesso di Vittorio Emanuele III con Giolitti, oppure si fissa nel marmo il vergare candido di Pio X nel suo studio ingombrato di sacre scartoffie, oppure si ghiaccia nell'estrema solitudine d'un androne troppo ampio la discesa di Paolo VI verso la sua limousine pontifica. E com'è sa- | piente e artistica ormai anche la «mano» regale della Regina Elena che fotografa Umberto bambino al bordo del mare, quasi fosse un Friedrich littorio. 0 Guido Rey, quando riproduce oleografiche scenette olandesi, o preraffaellite con candide madonnine. C'è come un calarsi estremo, quasi cimiteriale, un versarsi della vita dentro gli stampi obbligati della posa atteggiata, recitata. Che siano le vignette nude-pompeiane di Von Gloden o del suo cuginoemulo Pluschow, le agghiaccianti sequenze di martirio ortopedico dell'Istituto Rizzoli, le pose calcate di Carducci, ingolfato nel suo pastrano, o la scultura in tight di Mussolini, vivente colonna cu Villa Torlonia, alla vigilia del matrimonio di Edda con Ciano. Scolpiti dalla luce. Certo, ci sono le eccezioni: per «rompere le righe» bisogna attendere le spiritate, affabili istantanee di Gegé Primoli che «schizza» il pittore Forain mentre amoreggia su una gondola, gli affondi etno-folklorici del pittore Michetti, gli esperimenti arditi di Castagneri, il ritrattista ufficiale di Toscanini e della Scala, che per la copertina del libro-oggetto New York film vissuto di Depero studia i primi fotomontaggi a grattacielo. E che ha l'idea rivoltosa di fotografare Guido Keller, l'amico milite di D'Annunzio, integralmente nudo con clava. Ma appunto, la storia del ritratto in Italia consiste proprio in quest'emancipazione progressiva verso la naturalezza, l'istintività, quello stile leccato, firmato, che l'atelier Alinari seppe portare a vertici quasi insostenibili. Marco Vallora Celanti «Eccezionali immagini che vivono per altre immagini» Fra i protagonisti Boetti, Merz, Chia, Kounellis, Paolini, Pomodoro Il HÉll¥>T'Hi ' Wttftì w Due pezzi dell'originale mostra dedicata all'arte di Gianfranco Gorgoni: la rielaborazione del ritratto di Giulio Paolini e a fianco quella di Sandro Chia A sinistra: «Ritratto del pittore Primo Conti», fotografia di Vincenzo Balocchi (1932). A destra le cartoline dipinte da Balla

Luoghi citati: Italia, Milano, New York