Morte in giallo per il re dei falsari

19 Morte in giallo per il re dei falsari Da Mantegna a Brueghel, Eric Hebborn aveva dipinto migliaia di «croste» d'autore Raccolto per strada con un trauma cranico EOSSO, sempre più rosso, quasi cianotico: sotto quella barba ispida da terribile Mangiafuoco - che spesso nascondeva un sorrisino sarcastico destinato ai pretenziosi «conoscitori», quelle «facce da tei^ ra d'argento» che aveva tante volte beffato - ora si stendeva come il dilagante, paonazzo fard della paura, che non si può mascherare. L'ultima volta che si era presentato in pubblico, a fine novembre a Milano, Eric Hebborn, il cosiddetto Re dei Falsari, la serata si era trasformata in una vera bagarre, degna d'un'atmosfera ormai inusuale, da avanguardie storiche. E lui ne era uscito abbastanza malconcio: a rischio quasi d'un colpo apoplettico. Era venuto a presentare, con la sua solita sorniona souplesse, l'ultima sua provocatoria fatica, il Manuale del Falsario, appena uscito da Neri Pozza. Un manuale concepito come un ricettario di cucina, «che a leggerlo viene l'acquolina in bocca»: anche perché vi si rivelava che mi provetto imitatore deve saper usare, nelle sue operazioni alchemiche, pure l'uovo o il formaggio, il miele o lo zucchero. Ma quella sera, già funestata da qualche rabbiosa nuvolaglia preannunciata, si era trovato addosso una ringhiosa e infuriata legione di accusatori, avvocati agguerriti e galleristi feriti, che avevano cercato d; minare quella sua olimpica, beffarda serenità, evidente anche nel suo primo «romanzo» di memorie e calunnie - nessuno risparmiato - dal titolo malizioso Troppo bello per essere vero. Aveva fatto scandalo la sede, questa sì davvero provocatoria, in cui quella Bibbia delle bufale e delle contraffazioni, che non si peritava di deridere crudelmente la spocchia dei cosiddetti esperti era stata presentata: cioè la Finarte. Come se un grande boss latitante, o un tangentista non-pentito, avesse scelto di lanciare il suo bestseller proprio nei saloni della questura o nello studio del dottor Borrelli. Di qui la quasi rissa: con il rappresentante degli antiquari che lo accusava dei peggior reati - truffa, turbativa del mercato, istigazione a delinquere e un inflessibile avvocato intento a ricordargli funereamente che reati di quell'entità non erano prescritti dal fluire del tempo, come forse lui s'illudeva. Il fatto è che Hebborn, nato a Londra nel 1934 ma vissuto prevalentemente in Italia, come ripeteva nella sua autobiografia (scritta per un unico motivo, «salvarsi dalle biografie»), non si è mai considera¬ to un crimmale, un approfittatore, forte di alcune boutade di Picasso o della loica tesi e molto comoda di Gombrich, sui falsi che non esistono. Un'opera è sempre vera, false sono soltanto le cattive attribuzioni: le etichette che vi si pongono sotto. La colpa è degli esperti, sembra ricordarci Hebborn, e dei mercanti furbastri. Lui si limitava a disegnare e presentare questi disegni ai grandi conoscitori dai nomi altisonanti, come Pope Hennessy, la Vertova, sir Anthony Blunt, il consigliere della Regina, addestrato anche ai trucchi del Kgb. Se poi questi li glorificavano nei grandi musei, con l'attribuzione a Mantegna o Rembrandt, Brueghel o Pontormo, lui che colpa ne aveva? Rimaneva il non piccolo problema che lui quegli «Hebborn alla maniera di...» li aveva venduti per cifre non certo trascurabili. Ma anche qui - non nascondendo la sua boria - aveva la risposta pronta: «Non vedo perché mai avrei dovuto regalare i miei disegni. Lioltre posso dire onestamente che non ho mai chiesto una somma superiore a quella che un artista della mia reputazione poteva pretendere per le sue opere». La sua autobiografia, del resto, si apriva fiabescamente su un doppio di comodo, certo Vincent van Blank, un patito assoluto del disegno, che non riusciva a far apprezzare la sua arte a nessun critico pretenzioso. E così, forte della sua strabiliante manualità, aveva deciso di farsi ammirare come Leonardo da Vinci o Van Dyck. Peccato che un giorno uno di quei critici, un po' più avvertito e sottile degli altri, aveva scoperto in quel perfetto Leonardo tanto lodato un piccolo telefonino dipinto, che certo il grande toscano non aveva ancora inventato... Hebborn, questo figlio di mi droghiere che aveva avuto pure la colpa di spostarsi in un sobborgo meno chic di South Kensington («Non so se potrò mai perdonarglielo, questo colpo inferto alle mie ambizioni sociali») era «nato» proprio così: adoratore dell'arte (stabilitosi senza una lira in Italia, abituato a dormire all'addiaccio pur di stare vicino agli Uffi¬ zi o ai Musei Vaticani), si era messo a produrre la sua serie dannata di veri-falsi (più di un migliaio, sosteneva, di cui soltanto 25 sbugiardati) cliiaramente per prendersi una rivincita contro quegli esperti che non l'avevano capito. Tanto sapeva benissimo che quegli stessi esperti e le case d'aste e i curator dei musei avevano ben poco interesse a che la verità venisse troppo a galla. Rischio la «turbativa del mercato», com'era successo dopo quella sventurata ammissione della Galleria Colnaghi, nel '78, che l'aveva costretto a venire alla luce, a raccontarsi. Un'ombra sinistra chiudeva la sua autobiografia, dove parlava anche di «eccessi che hanno minato la mia salute»: «Così se per caso mi resta qualche anno da vivere...». Avrebbe voluto tradurre i versi di Michelangelo; occuparsi di Gilgamesh. Certo, una fine cosi misteriosa, winckelmanniana, getta un'ulteriore ombra sinistra sulla sua vita avventurosa: che abbia falsificato anche la sua morte? Marco Vallora ROMA. Misteriosa morte di Eric Hebborn, il pittore inglese considerato il più grande e temuto falsario del mondo. Soccorso in via della Scala a Trastevere nella notte fra martedì e mercoledì in preda a una grave emorragia cerebrale, era stato subito trasportato in ospedale (prima al Nuovo Regina Margherita, poi al San Giacomo). Operato d'urgenza, si è spento ieri mattina. Aveva 61 anni. «E' arrivato in coma profondo - hanno spiegato i medici -, tanto che il neurochirurgo non ha riscontrato alcuna reazione al dolore». Secondo i sanitari Hebborn sarebbe caduto in seguito al sopraggiungere dell'emorragia, quindi il malore non sarebbe stato causato da un trauma esterno. Accertamenti sono in corso anche da parte della polizia. Secondo indiscrezioni raccolte sul posto, il pittore era in uno stato di ubriachezza. to il suo talento e il gusto della beffa ha ingannato esperti e musei in tutto il mondo; inventò anche un «Leonardo» con telefonino nascosto Un disegno in stile «leonardesco»; in basso, un suo «Autoritratto all'età di quindici anni» non l'avebenissime le case davevano verità veschio la com'era sventuraleria Colncostrettocontarsi. deva la parlava ano minatper caso vivere...»

Luoghi citati: Italia, Londra, Milano, Roma