La bella geisha si scontrava con la bionda rivale americana

Domani l'opera in prima alla Scala con la direzione di Riccardo Chailly, regista Asari Domani l'opera in prima alla Scala con la direzione di Riccardo Chailly, regista Asari La bella geisha si scontrava con la bionda rivale americana MILANO. Hanno scavato in Puccini e nella sua «Butterfly» senza lasciarsi prendere dalla tentazione routinaria che poteva essere fortissima perché il regista Keita Asari è alla quarta ripresa dell'allestimento scaligero '85-'86 e Riccardo Chailly è fra i direttori italiani quello che più appassionatamente e capillarmente ha esplorato la geografia del repertorio pucciniano e proprio con «Butterfly» ha debuttato all'estero, al «Lyric Opera» di Chicago quando era poco più che un ragazzo. Asari (la sua è fra le più belle ed emozionanti regie della recente storia scaligera) è andato addirittura a frugare nella vita privata di quel «tombeur de femmes» che fu Puccini, per dimostrare l'«occidentalità» della donna Butterfly. Il compositore viareggino, baffuto, prestante e antesignano di quei «latm lovers» che proprio da domani una mostra di «Pitti Immagine» celebra e tambureggia alla Stazione Leopolda di Firenze, buttava là una frase non fra le righe per spiegare il suo avere dato musica al dramma d'amore di una geisha, ai sentimenti di una civiltà lontanissima: «Capirete se vi innamorerete di una giapponese». Capitò a Puccini? Keita Asari lo lascia intendere, raccontando di Oyama, che, moglie di un diplomatico del Sol Levante a Roma, insegnò al virilissimo Giacomo le canzoni della tradizione giapponese, e rievocando la geisha Sadayakko che danzò a un'Expo parigina, ammaliò il giovane Gide, assai poco incline al fascino femminile ma forse attratto dalla frigidità gestuale di quel ballo, e così febbrilmente Puccini da indurlo a seguirla in «tournée» sino a Roma per rivederla. Ciò Ciò San sarebbe la proiezione di quei due innamoramenti in kimono, proiezione filtrata e un po' distorta dall'occhio e dal cuore occidentali del compositore perché «una donna giapponese non esprimerebbe così palesemente la propria passione», ma tale da cogliere «l'avvio di quella contaminazione dell'Occidente che ha provocato più tardi la grande, profonda metamorfosi del Giappone». Nello spettacolo di Keita Asari, l'occidentalità di Ciò Ciò San e della sua vicenda d'amore è sottolineata per contrasto da un tessuto stilistico che più orientale e giapponese (le scene sono di lenirò Takada e i costumi di Hanae Mori) non si potrebbe per rarefazione e lievità. A sublimare questo «carattere», quest'identità dell'opera, lo si è capito dalle prove e dalle sue dichiarazioni, ci pensa Chailly con la scelta di voci europee, da Maria Spacagna a Galina Gorchakova, da Angelo Veccia a Carlos Alvarez a Craig Sirianni, da Francesca Franci a Mariana Pentcheva, e con una lettura latina dello spartito, anche se il direttore ha portato in campo riferimenti a Mahler, ai comuni colori e a somiglianze d'orchestrazione per spiegare un approccio nuovo a questo Puccini e il suo desiderio di accendere l'attenzione musicale sull'«avanguardismo» del compositore, sul suo «volto moderno dal punto di vista dell'invenzione armonica e dell'orchestrazione» che gli furono fatali alla prima scaligera del 1904. Allora, fu un tale naufragio di fischi e di pernacchi critici che Puccini umilmente lavorò di forbici, di pianoforte e spezzò l'equilibrio dei due atti, concedendo un intervallo in più. La «Butterfly» di oggi nasce da questo «work in progress» che, attraverso cinque versioni, durò dal 1904 all'inizio degli Anni Venti, quando l'opera fu rappresentata al Teatro Carcano di Milano, con «gli accomodi del Maestro Puccini», come si legge sulla copertina di quello spartito. Gli «accomodi» erano i recuperi di certe parti che Puccini aveva cestinato per le repliche di Brescia nel 1904, di Londra nel 1905 e per quella di Parigi del 1907 a cui mise mano anche musicalmente ascoltando i consigli di Albert Carré, il corrispettivo inglese di Virgilio Talli, inventore della regia. Dal podio della Scala, per undici recite, Chailly dirigerà una versione «mosaico»: l'edizione parigina del 1907, ma ripristinando la struttura in due atti e sette minuti di musica che erano stati sacrificati alla forbice. Sono gli «accomodi»: tre inserti nel primo atto, tre nel secondo e un collegamento d'intermezzo. Novantadue anni dopo 0 debutto, è una «Butterfly» che promette labbra freschissime e non di silicone. Guido Vergami TAGLIATO UN ATTO INTERO SI', sì, ascolteremo 7 minuti, 7 in più, per questa «Madama Butterfly» scaligera, ripresa con entusiasmo da Chailly. Sette minuti disseminati clandestinamente qui e là tra gli atti, come un sottile, perfido profumo esotico: e per chi ama Puccini e le prelibate riscoperte, anche solo sette minuti, si sa, sono un intiero paradiso. Ma è curioso che ancora troppo poco ci si occupi di un episodiochiave nella tormentata gestazione di quest'opera, e che avrebbe permesso agli adoratori di Puccini di godersi ben altri minuti di delizia musicale. Intieri quarti d'ora, che avrebbero rappresentato come un atto nell'atto (secondo), e che sono scomparsi nel nulla, trascinandosi dietro l'ipotesi d'un incontro ben più corposo e imbarazzante tra Butterfly e Kate Pinkerton, «the blond American», come ima diva del «noir». E tutto questo nell'oggi svanito Atto del Consolato Americano. Certo, qualche studioso ne ha accennato talvolta, sia pure di sfuggita, ma non se n'è mai saputo troppo: ed anche qui è paradossale che dopo anni ed amii di italiche ricerche in stallo, che si sono ostina- te ad esercitarsi sul finale mutato della «Rondine» o sugli abbozzi di «Turandot», debba arrivare dall'estero, dalla Cornell University, uno studioso come Arthur Groos, per sfidare gli archivi ancora inviolati (nella fattispecie) della Ricordi e soprattutto scovare alcune lettere inedite conservate nella Biblioteca Passerini-Landi di Piacenza. Che ci spiegano come Puccini abbia preso questa drastica decisione di tagliar via un'ampia fetta di dramma, cui pure lui stesso tanto teneva: «Non son d'accordo con te circa l'abolizione della moglie: la scena del console è troppo impressionante per rinunciarvi. Ne riparleremo». E' un periodo di grandi incontri, discussioni, convocazioni dell'«Assemblea generale». Mica, con la sua consueta cocciutaggine, s'è messo al lavoro troppo presto, sulla base del racconto di John Luther Long, senza attendere la versione teatrale di Belasco (l'ispiratore della «Fanciulla del West»), versione che Puccmi ha scoperto a Londra, .durante le prove di Tosca e a cui toma insistentemente: «Io ci penso sempre». «Ne sono completamente preso». Illica è entusiasta dell'in- termezzo americano, di quello spostamento subitaneo in «una villa occidentale nel terreno detto Concessione Europea», che non soltanto permette al second'atto di «acquistar gran varietà», ma che dà un carattere ben preciso all'opera. Giocando una partita cruciale e crudele: quella del conflitto tra due psicologie, tra due mondi, quello Occidentale e quello Orientale. A questo punto subentra Giacosa, che deve rivedere la versificazione e proporre i suoi aggiustamenti. Ma si sa, lavora troppo pachidermicamente, suscitando da un lato i sarcasmi lirici del Maestro («il suo ombelico rientra e il parto non vien») dall'altro la stizza dell'editore, che gli mette fretta (e il poeta borbotta: «Calcola i versi come fossero pantaloni!»). Figurarsi che succede, in questo quadretto burrascoso, quando, con la sua solita lungimiranza drammaturgica, Puccini scopre che quell'atto a cui tutti sono ora così affezionati, non ha da essere. «Il Consolato era un grave sbaglio. Il dramma deve correre alla fine senza interruzioni, serrato, efficace, terribile! Facendo l'opera in tre atti si andava incon¬ tro al fiasco sicuro». Illica lo si convince abbastanza in fretta, nonostante il suo orgoglio di poeta tenesse molto al ritorno di Pinkerton in quella scena nevralgica, con il «suo tipo eccezionale di tenore, per carattere, modernità, tutto!». Ma è ben più difficile persuadere il ruminante (anche di permalosità) Giacosa e soprattutto Ricordi, che teme ora un'operina troppo esile, in due scarni atti. Anzi, usa lo spauracchio, temibile, per Puccini, di doverla programmare affiancata ai «Pagliacci» di «Leonbestia», un'opera che Puccini non sopporta. ositore: ntaloni» Ma questi, «il fulminissimo», è sufficientemente abile per saperlo ammansire: «Così fila dritto e logico che è un piacere». Insomma, punta tutto sulla modernità, sulla rapinosità espressiva: «Così come è stato fatto è più efficace». E come sempre, grande visionario, usa un'immagine icastica, una «fatica» visiva, muscolare, per convincerlo. «Quel benedetto Consolato avrebbe pesato su tutta l'opera! Scendere quella collina, giù da quel sentiero che noi conosciamo tanto, passare pel porto, attraversare la città europea, entrare nella contrada del Consolato... Non sente ella che fatica? Non è una distrazione inutile?». Ma poiché i versi di Illica e Giacosa su questo ipotetico incontro tra le due donne si sono ritrovati, vediamo che cosa in realtà avremmo «perso». Come spiega Groos: «L'ekrninazione dell'atto del Consolato spostò il baricentro tematico del dramma da questo conflitto culturale ad una tragedia di carattere, centrata essenzialmente sull'eroina». A questo punto, probabilmente, Puccini ha capito che un ipotetico incontro tra le due, a luogo di approfondire le psicologie, non avrebbe fatto altro che immiserire l'intangibile, misteriosa distanza di Butterfly. Nell'antica versione, Kate Pinkerton entra americanamente affrettata e distratta al Consolato dettando un telegramma, che ghiaccia la «gheisa» presente, nascosta: «Vedrò la madre e tratterò con lei domani». Pagheranno col denaro il furto del suo bambino. Quando la moglie legittima scopre in un angolo questa affranta bambolina di bisquit, non sa trattarla che come un gingillo, una chicchera di porcellana, una giada. Le dà del tu, le chiede un bacio. «No» risponde imperterrita quella, come Bartebly lo scrivano. E l'altra se ne va «di fretta com'era venuta». Ora Puccini non sopporta più questi siparietti ritardanti ed esotici. E soprattutto non tollera tutto quel miele: «Vedi Giacosa cosa ha fatto? Troppe "povera piccina", "povera bmiba", manca la "gelida manina" e poi siamo a posto». Sardonico ma geniale: e modernissimo ha capito che il pubblico preferirà un non-incontro ghiacciato, silente, con quella donna lontana, distante, «che mi fa tanta paura». Marco Vallora py gIl melodramma fu il pubblico lo accoci fu un nubifragiocosì il testo venne L'ammaliatrice era Oyama, moglie di un diplomatico del Sol Levante Il melodramma fu rappresentato nel 1904 il pubblico lo accolse male: ci fu un nubifragio di fischi, così il testo venne accorciato Feroce disputa tra il musicista e gli autori del libretto, Illica e Giacosa: «Troppo miele» Qui accanto Giacomo Puccini, a sinistra Giuseppe Giacosa. Puccini era sarcastico nei confronti del librettista che lavorava adagio. «Il dramma deve correre alla fine senza interruzioni, serrato, efficace, terribile» Caustico il compositore: «Calcola i versi come fossero pantaloni»