Quell'Italietta non mi piace. Da chi ci difende la Nato? di Massimo Giannini

polemica. Guglielmi contro Fofi e Cordelli: da sempre in letteratura ci sono sentimenti alti LETTERE AL GIORNALE Quell'Italietta non mi piace. Da chi ci difende la Nato? II duro lavoro degli Anni 70 Ho letto il bell'articolo a firma di Massimo Giannini sulla Stampa del 24-12 e senza eccepire altro sulle competenti dissertazioni sulla fiducia condizionata attribuita al dott. Fazio nell'economia italiana, mi permetto di dissentire con un po' di amarezza sull'appellativo di ltalietta all'Italia del 1973. La mia memoria di ex dirigente industriale ricorda il tanto lavoro fatto in quel periodo per modernizzare e sviluppare la nostra industria, l'entusiasmo che animava le nostre speranze in un futuro migliore, malgrado il periodo tormentato dal terrorismo e dalla crisi energetica dovuta al contingentamento del petrolio. Perché ltalietta, quando si consolidavano le basi che ci permettono tuttora di mantenere le posizioni acquisite tra i primi Paesi industrializzati del mondo? Non me ne voglia il brillante redattore dell'articolo, ma ltalietta non mi è andato giù. Renzo Mabrito Ringrazio il dottor Mabrito per la sua «testimonianza», ma vorrei rassicurarlo: l'«Italietta» del '73 di cui parlavo nel mio articolo non voleva avere i coimotati della povertà economica o spirituale, né dfill'dnfamia» di cui invece si è macchiata quella successiva, godereccia, dissipatrice e tangentocratica dei «mitici» Anni 80. [m. già.] Rafforziamo piuttosto TOnu Ritengo utile che si sviluppi un confronto sereno sulla questione della presenza della Nato in Italia e nel resto dei Paesi europei. Mi pare evidente che il contesto storico e politico è del tutto differente, che non ci sono più due blocchi politici e militari contrapposti, e che non c'è una lotta per l'egemonia di nessun Paese, né dell'Est, né dell'Ovest. Dato per acquisito questo non si comprende l'utilità di ima alleanza militare (di difesa?) per contrastare improbabili attacchi mili- tari dei Paesi Arabi o forse della Cina. Da chi si deve difendere la Nato allargata oggi anche ai Paesi dell'ex blocco comunista? Non vi pare più ragionevole rafforzare il ruolo dell'Onu anche sul piano di dissuasione rnilitare, invece che dare agli Usa il monopolio del controllo mondiale della pace? E ancora, siamo sicuri che gh Usa agiscano «disinteressatamente» per il bene di tutti i popoli? Ebbene ponendomi queste domande, anche io convengo con Cossutta e Bertinotti che sia più opportuno dare reale forza propositiva e di controllo all'Onu, smantellando le basi Nato in tutti i Paesi aderenti al Patto, sviluppando in Europa una politica di sostegno alla pace, utilizzando le risorse che oggi vengono impiegate per acquistare inutili mezzi cu' distruzione in favore dei Paesi del Terzo mondo, per sfamare quegli 11 rnilioni di bambini che ogni anno muoiono di fame e di stenti a causa della indifferenza del mondo occidentale. Come dice un grande poeta «smettiamo di uccidere i morti». Bruno Pierozzi, Roma Gli eredi Savoia non hanno colpe Non sono d'accordo con la nemesi storica carducciana secondo la quale le colpe dei padri ricadono sui figli. E non mi riesce facile capire il livore che alcuni (forse un pugno di detrattori) esprimono nei confronti degli eredi di casa Savoia che non mi risulta abbiano mosso un solo dito contro gli italiani, siano essi monarchici o repubblicani. Altra cosa che non riesco a capire riguarda i danni che la presenza degli eredi dei Savoia in Italia potrebbero arrecare alla nostra Costituzione repubblicana. In sostanza sarebbe utile sapere perché spaventa così tanto la presenza di Vittorio Emanuele e di suo figlio Filiberto in un Paese come l'Italia dove la Repubblica è ormai così consolidata da non temere proprio nulla da parte di chiunque pensi di voler cambiare le nostre istituzioni democratiche e repubblicane. Rifiutare l'accesso in Italia degli eredi dei Savoia significa aver paura, significa esser deboli, quando invece le nostre istituzioni sono forti e non si spaventano di fronte a un uomo come Vittorio Emanuele che io ritengo completamente innocuo. Pasquale Grillo, Aosta «Si può fare a meno dei ministeri» Ho il sospetto che gli anni che passano mi rincitnilliscano. L'evoluzione veloce dei tempi attuali porta a modifiche del linguaggio per cui, a volte, una parola assume il significato opposto a quello che aveva almeno vent'anni fa. Un Ministero, ad esempio, dovrebbe essere «un organo amministrativo dello Stato corrispondente ad un ramo delle funzioni dello Stato medesimo» (Zingarelli). Nell'Italia di questi anni l'attività agricola, sia pure senza un Ministero competente, è nel caos e i produttori lavorano per distruggere i loro prodotti. I trasporti su rotaia sostengono validamente il confronto con quelli del 1848 in quanto a velocità ma riescono a produrre un numero assai più elevato di vittime. A questo punto, siccome si devono anche risanare i bilanci, tagliando le spese, cominciamo dall'alto abolendo i Ministeri e affidandoci al buon Dio. C'è da sperare in risultati migliori. Giovanni Dafarra, Torino Strehler grande anche per due canzoni Per esaltare giustamente la grandezza del regista e dell'uomo di teatro i primi commenti hanno trascurato Giorgio Strehler autore di due canzoni che testimoniano la sua qualità di poeta per la musica e di uomo democratico: «Ma mi» («Ma mi ma mi/ quaranta dì, quaranta not,/ a San Vitur a ciapar i bot/ Mi son de quei che parli no»), diventata quasi il simbolo della resistenza al fascismo, e «Le Mantellate» dedicata a Regina Coeli, la prigione di Roma, ambedue con la musica di Fiorenzo Carpi: testi tra i più alti della canzone italiana. Guido Rezzonico, Venezia I fascisti rossi e Landò Dell'Amico La presentazione che fa Paolo Mieli su La Stampa di domenica del libro edito dal Mulino sui «fascisti rossi», di cui alcuni capitoli saranno anticipati dalla rivista Nuova storia contemporanea, è davvero stuzzicante. La materia, infatti, è stata sino ad ora, salvo certe ammissioni di Ugo Pecchioli, un tabù per le Botteghe Oscure. Accetto, naturalmente, la qualifica di «vice Caronte» nel contesto di quella operazione politica del dopoguerra attraverso la quale tanti giovani reduci da Salò traghettarono - nel bene e soprattutto nel male - nei porti del pei. Sapremo dal libro di Buchignani, che mi dicono sia un ricercatore attento e dotato, alla De Felice, se quella vecchia vicenda sia, per me che l'ho vissuta passionalmente dal didentro, accettabile. Nel frattempo, visto che La Stampa in questo fine 1997 insiste nel tirarmi in ballo a sproposito citando il 12 dicembre fonti di polizia politica da me sino ad oggi ignorate - come «già legionario della X Mas e successivamente iscritto al msi, al pei, al psdi, ove ha messo a disposizione di tutti la sua professionalità di giornalista, non trascurando di esercitare anche l'attività di collaboratore del Sid», mi vedo costretto a chiedere da parte del giornale una messa a punto. Paolo Mieli, dall'alto della sua autorità professionale, torna infatti - come il collega Francesco La Licata qualche settimana prima - a vedermi «nelle spire dei servizi segreti», quasi fosse 0 suo un «input» per l'autore del libro sui «fascisti rossi» di prossima pubblicazione. Orbene, in quelle «spire» mi ci hanno cacciato virtualmente proprio certi colleghi, i quali da decenni - malgrado sentenze e documentazioni hanno costruito intorno alla mia persona il mito del giornalista-spia. Forse ho sbagliato nel non reagire nel passato (odiando usare la carta bollata verso i colleghi) con maggiore energia, ma, ora che da giornalista professionista pensionato mi riposo, sto recuperando anche il tempo per l'indignazione. Landò Dell'Amico, Roma Non era il vero Peter Schneider La foto di Peter Schneider pubblicata a pagina 15 sulla Stampa di ieri era del direttore d'orchestra omonimo e non dello scrittore intervistato nell'articolo su Berlino. Ce ne scusiamo con i lettori e con l'intervistato. Le lettere a vanno inviate,*"' a: P\ /la stameli 1 Via Marenco 32,10126 TORINOV | fax 011 - 6568924 ^ e-mail lettere @ lastampa.it !