GIALLO, NERO, PULP

GIALLO, NERO, PULP GIALLO, NERO, PULP Quando un thriller non racconta solo la morte D esser proprio buoni, un delitto non si nega a nessuno, specie sotto l'alberello addobbato. Goliardata d'obbligo a parte, ribadiamo che un consistente numero di belle storie e di narratori tosti e coraggiosi - nonché al trotto coi tempi - va ormai cercato sul versante periglioso e sanguinolento, o anche solo «disturbante», del romanzo giallo-nero (per le sfumature fate voi). Sarà che intrattenimento e presa di coscienza non vanno più necessariamente scissi, anche perché il tempo di meditare sui mah e sui destini umani è sempre più precario e cellularizzato; sarà che ormai denuncia, allarme rosso e fiction passano attraverso vie multimediali, e ci troviamo le stragi e gli sgozzamenti a tavola, le guerre tra poveri e le violenze sui minori come dopocena. Ciò che di nero offre la realtà, ha trovato il modo spesso esemplare - di riversarsi in storie godibili e vi¬ branti, per farci a volte riflettere sul come e sul quando e sul non-si-sa-mai di ogni destino. Diciamocelo, il ragionier Killer dell'alloggio di fronte non è affatto improbabile, così come il Nonno-Orco di fine millennio. In termini di consigli per gli acquisti, ovvio, non vanno magari suggerite agli animi sensibili - ne esistono ancora? - sublimi efferatezze alla Skipp & Spector, maestri riconosciuti del genere splatter-punk, così come ai tifosi incalliti dei suddetti e di Joe Lansdale o Rex Miller non proporremmo mai le larghe campate generazionali di uno Scott Turow che, col recente La legge dei padri (Mondadori, pp. 646, L. 33.000), ha offerto un perfetto esempio di romanzo aperto, forse meno calato nel filone giallo, ma che dal giallo ricava le soluzioni narrative più convincenti e appassionate per raccontare il nostro tempo, la nostra vita. VIVALE FIABE LINGUAGGIO DELL'INCONSCIO SUL finire del 1812 i fratelli Grimm, Jacob e Wilhelm pubblicavano il primo volume dei loro Màrchen, una raccolta di fiabe di vari Paesi di lingua tedesca, trasmesse fino ad allora solo per via orale, costruendo così un patrimonio che è diventato europeo e universale. Con il tempo sono diventate semplicemente Le fiabe dei Grimm. Ciò che conta, per chi ha imparato ad apprezzarle fin da piccolo, e magari le ha studiate da grande secondo categorie antropologiche, storiche, folcloriche, non è tanto la bellezza o l'intrigo di una storia o dell'altra, ma piuttosto il senso del meraviglioso, dell'immaginario, dell'Avventura e del mistero che le fiabe, tutte insieme, trasmettono: da un momento all'altro si può fare un passo falso e cadere in un incantesimo, ma questo consente anche di conoscere mondi e personaggi nuovi, fate, maghe e stréghe che siano, e quindi a tenersi pronti a risolvere un problema, a mostrare una nuova intelligenza. Da qualche anno, tuttavia, non si possono più leggere le fiabe dei Grimm, o altre fiabe, se non si tiene conto della lettura, in un certo senso magica anch'essa, che ne ha fatto Bruno Bettelheim, nel suo // mondo incantato (Feltrinelli, 1977). Oggi, come nel Medioevo al quale risalgono, le fiabe parlano infatti all'inconscio nel linguaggio simbolico dell'inconscio. Non è necessario che le interpretazioni siano esattamente quelle che Bettelheim ha suggerito. Basta che si sappia che le fiabe parlano all'inconscio, che offrono nuove dimensioni all'immaginazione del bambino (ma anche dell'adulto), e che aiutano a mettere ordine nella propria casa inreriore. Tilde Giani Gallino ITALIAN STYLE Isole in fiamme e Procuratore calde PARTIAMO dalle pareti di casa, per vedere che un buon ex esordiente come Gianni Farinetti ha trovato nel genere delittuoso la sua ampia ispirazione da sceneggiato tv. L'isola che brucia (Marsilio, pp. 408, L. 32.000) è forse meno suggestivo del precedente delitto in terra subalpina, ma riesce a ricreare - nel panorama fittizio dell'estate di Stromboli una dimensione sociale critica che mette a nudo le caratteristiche più esecrabili dell'animo umano. Il delitto ovviamente c'è, sepolto sotto la sabbia. Dalle lente falcate di Farinetti al taglio cinematografico davvero ammirevole .-. del racconto di Piero Soria, La Procuratora (Limina, pp. 112, L. 25.000), dove il titolo non va inteso in termini legali, ma riferito ad un'abile procuratrice di calciatori di serie A. Qui un regista tirchio risparmierebbe anche sulla sceneggiatura, perché il film è già lì, perfetto, montato in tutte le sequenze, con la partecipazione essenziale e straordinaria di Torino, scenario ideale per la vicenda della mantide - non necessariamente religiosa - Maria Elena Bonazzi e dei suoi affari miliardari, tra una Juve di circostanza, allenatori con villa in collina, avvocati che finanziano porno-rievocazioni con sosia di personaggi mitici, dai Kennedy alla Dynasty monegasca. Il commissario Lupo - detective per sbaglio, ma saranno affari suoi perché a noi piacerebbe rivederlo all'opera - svolge le ricerche partendo dall'assassinio della Bonazzi alla Crocetta, e da lì scava nelle macerie fangose della Torino «bene» (si fa per dire). Una storia per immagini davvero moderna, viva, ammiccante, da «vedere» e gustare fotogramma per fotogramma. Veloce, e nuovo anche come tema, è Sheol (Hobby & Work, pp. 123, L. 4900) di Marcello Fois, dove l'ispettore Ruben Massei si trova a risolvere il caso dell'omicidio di un'anziana donna nel cuore della Comunità ebraica romana. Passato, ambiguità del presente e memoria storica rendono vera e credibile la vicenda, per noi italici, almeno, piuttosto originale. ANDARE SUL SICURO Da Simenon a Ed Me Bain LA definizione, vale, diciamo così, coi nomi più «classici», a priori garanzia di qualità. Chi non si sente di reggere le ispirazioni ectoplasmatiche di Clive Barker o le tensioni videoclippaté di Carlo Lucarelli e del suo Almost blue (Einaudi, pp. 160, L. 13.000) che va comunque letto e apprezzato come un gioiellino pulp di casa nostra, potrà accostarsi, ad esempio, alle brume ormai beatificate di Simenon. Il fantasma del cappellaio (Adelphi, pp. 238, L. 26.000) è un romanzo del 1948 in cui si muove il personaggio pacioso e realistico di Leon Labbé, il cappellaio di La Rochelle, la città di mare dove si dovrà risolvere il caso di cinque vecchie strangolate con una corda di violoncello. Pioggia, silenzi, ombre che spiano, personaggi squallidi ma veri, il tutto in perfetto stile Simenon, senza delusioni. Saltando l'oceano, ritroviamo l'avvocato Matthew Hope alle prese con un nuovo caso ideato dal suo creatore, il prolifico - ma sempre in tiro - Ed McBain, in Gladly, l'orsacchiotto strabico (Mondadori, pp. 318, L. 30.000). Qui si sco¬ pre che si può uccidere anche per un orsacchiotto di Natale. E non è poco, specie se l'idea commerciale vale milioni di dollari. I colpi di scena non mancano e - ogni volta ci sorprende - non c'è mai nulla di scontato nelle storie di McBain, esempio di come professionalità e mestiere viaggino sempre affiancate nei decenni. ALTRI BRIVIDI Serial killler e perversi vari PROPONIAMO comunque, per equilibrare i piatti della bilancia, anche qualche brivido più sconquassante a chi teme che la vita offra poche emozioni. A queste anime vaganti non augureremmo mai di incrociare la strada di Andrew, il serial killer di Cadavere squisito (Frassinelli, pp. 248, L. 24.000) di Poppy Z. Brite, giovane autrice con ambizioni truculente assai ben meditate. Andrew ha ucciso «solo» ventitré volte quando fugge dalle carceri inglesi; e trova rifugio a New Orleans. Qui seguita a «lavorare» nel sottobosco di droga. Aids e perversioni, finché incontra Jay, l'ambiguo riccastro che darà vita, con lui, a nuove e piuttosto indigeste cenette. Per stomaci corazzati. Due curiosità, ancora, un po' fuòri dal coro. Il dobermann americano (Sonzogno, pp. 184, L. 9900) di Joél Houssin, noir piuttosto caotico che contiene però tutti gli elementi della cialtroneria dei giorni nostri, moltiplicate al massimo esponente di droga, sesso, banditi assatanati, poliziotti-killer, rapine devastanti e molti luoghi comuni. Non per niente Jan Kounen ne ha fatto un film ipercriticato, quell'isterico fumetto western urbano con la Bellucci, tanto per strizzarci l'occhietto. E poi, Elvis, Gesù e CocaCola (Feltrinelli, pp. 210, L. 23.000), che ci fa conoscere Kinky Friedman, ex musicista country che vive in un camper color «broccolo» e si è promosso protagonista di otto romanzi in cui morte e ironica analisi sociale trovano una godibile mistione, affogando in umori «vagamente» alcolici. Da leggere, divertendosi, questa prima avventura tradotta, che riguarda il singolare caso degli imitatori di Elvis Presley. RECUPERI E CONFERME Profili bogartiani e Mr. Murder Koonz SEGNALIAMO rapidamente qui tre titoli che, non appartenendo a un genere specifico della carrellata in giallo, hanno comunque modo di soddisfare gusti diversi. Antipasto d'antan con un prezioso recupero targato 1948, Un bacio e addio (Einaudi, pp. 338, L. 16.000), del malinconico, torbido, virile Horace McCoy, tra i padri legalmente riconosciuti dell'hardboiled. Profili bogartiani popolano questo e altri romanzi di McCoy, che racconta i destini lombrosianamente determinati, con fughe, ricatti, amori impossibili, colpe che vanno cristianamente scontate. Che bello, e che nostalgia! Ricco primo piatto della casa con La notte del killer (Sperling & Kupfer, pp. 467, L. 30.900) dell'iperproduttivo Dean Koontz. Lo scrittore conosciuto come Mr. Murder si trova di fronte a una ,copia identica di se stesso: equivoci, guai, disastri. Il tema del doppio è rivisitato da Koontz in chiave Anni Novanta, con toni talvolta surreali, ma il ritmo è come sempre incalzante. Secondo e dessert intercambiabili come gli enigmi della trama di Jack & Jill (Longanesi, pp. 393, L. 32.000) di James Patterson. Delitti simili avvenuti a enormi distanze, l'assassino che lascia biglietti firmati in coppia... Il detective Alex Cross si mette in caccia, anche perché uno degli omicidi è avvenuto presso casa sua. La faccenda si complica, sfiora la Casa Bianca, ma gli assassini sono davvero due come si firmano? E come possono agire in contemporanea a distanze tanto ragguardevoli? CHILI HA VISTI? Yuppismo Usa e atti impuri VORREMMO mettere in evidenza, in chiusura, due casi emblematici, di come editori di prima classe e storie allettanti riescano a passare, chissà perché e per quali alchimie della sorte critica, del tutto inosservati. Con Morte di un fotografo (Rizzoli, pp. 375, L. 30.000) - The big picture il meno banale titolo d'origine - l'americano Douglas Kennedy ha scritto uno dei più inquietanti e veri thriller - ma non è neanche giusto definirlo così - che analizzano lo yuppismo americano dove, dal piedistallo del benessere, si osserva il resto del mondo annaspare. Basta però un incidente di percorso per incrinare la tranquilla e noiosa vita di Ben e Beth Bradford e scatenare devastazioni psicologiche assolute. Delitto di gelosia, fuga, una nuova vita sotto mentite spoglie... Ma il destino è in agguato. Temi vecchi ma resi attuali, futuribili, da un autore che - memorizzate lezioni magistrali che vanno dalle «coppie» di Updike ai personaggi complessi della Highsmith, passando per gli uomini in bilico di Bellow - ha trovato il modo di rendere esemplare il vuoto assoluto che si cela dietro la corsa al benessere asettico ed egoista dell'Occidente. Citiamo infine un romanzo di Whitley Strieber, autore, anche, del sacerdotal-diabolico Fuoco impuro. Il suo Billy (Sperling & Kupfer, pp. 330, L. 29.900) è uscito da oltre due anni, ma vorremmo rinverdirne le oscure sorti. In tema di violenza sui minori, affronta il rapporto inquietante tra il dodicenne Billy Neary e il viscido psicolabile Barton Royal, che in Billy crede di vedere la perfezione - anche fisica che egli non ha mai posseduto. La storia del rapimento del ragazzo e del suo rapporto sadico con Barton fa lievitare la narrazione a livelli di vera tensione psichica e lascia filtrare le ombre delle nostre paure più vere e, purtroppo, sempre più attuali.Dai maggiordomi armati di veleno e self control agli squartamenti di eserciti di serial killer ormai quasi amici di famiglia, un campionario di inquietudini a tutti i livelli. In mezzo, ad ogni modo, transita la realtà, con tutte le più o meno intense sfumature del Male. a cura di Sergio Pent FINE DEL LAVORO LA PROFEZIA DI JEREMY RTFKIN USCITO quest'anno anche nei tascabili a 16.000 lire da Baldini & Castoldi, La fine del lavoro dello studioso americano Jeremy Rifkin ha avuto un successo ininterrotto, specialmente tra i giovani che sperano nel lavoro. E' un libro internazionale perché la concezione della centralità del lavoro, di origine ebraicocristiana, è dilagata nel mondo intero. Solo che adesso è cambiata. Le attività di produzione sono infatti delegate alla più efficiente e fatidica coppia robot-computer, mentre alle persone sono rimaste quelle di alimentare la coppia, di controllare e progettare eccetera. Che sarà anche bello, ma è numericamente scarso. I grandi numeri dell'occupazione li fa la coppia fatidica. Questa è la nota eredità lasciataci dal crepuscolo della 2a Rivoluzione Industriale. L'abbiamo dovuta accettare senza il beneficio d'inventario per la parte riguardante i gioielli di famiglia delle tecnologie informatiche, nuovi e foschi astri nascenti con una predilezione a giocare ai jobterminators. Per il momento il lavoro, cosi com'era concepito, non è altro che una quota consistente delle discariche industriali non riciclate. Poi si vedrà. E' combustibile buttato là, che non interessa neanche agli ■ ,, sfasciacarrozze più disponibili. Chiarito che in questa nuova guerra di mercato i colonnelli tecnologici annoverano accanto al nemico tradizionale, rappresentato dalla concorrenza, la new-entry dei dipendenti, la novità è che il lavoro del futuro si colloca nella offerta di capacità di essere «sul posto» a riparare i guasti crescenti, umani e materiali, prodotti dall'industria. Il nuovo lavoro è soprattutto una nuova mentalità. Jeremy Rifkin, da pragmatico, non rinuncia ad appartenere alla tradizione biblicoprofetica del suo grande Paese. Oddone Camerana <3 SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE TORINO

Luoghi citati: Limina, New Orleans, Torino, Usa