«lo dissi, poi ebbi paura»

«lo dissi, poi ebbi paura» «lo dissi, poi ebbi paura» E ora accusa il questore Allegra IL CASO SCOTTANTR I. R0MA UI ha visto in faccia l'as1 sassino del commissario Calabresi. Nel 1972 abitava a Milano, in via Cherubini, nel palazzo accanto a quello del commissario, e la mattina del 17 maggio, quando Calabresi fu ucciso, era in strada, nella macchina parcheggiata davanti al portone. Da lì vide il killer sparare al commissario e poi voltarsi verso di lui, mentre raggiungeva l'auto del complice. Al processo disse che Ovidio Bompressi, l'ex di Lotta continua accusato di aver ucciso Calabresi, non assomigliava affatto alla faccia che incrociò quella mattina. Ma adesso, 25 anni dopo, il signor Luciano Gnappi racconta un episodio inedito che è al primo posto dei muovi elementi» sulla base dei quali la difesa di Bompressi, Pietrostefani e Sofri chiede la revisione della sentenza di condanna. Tre giorni dopo l'omicidio, ricorda Gnappi, due poliziotti andarono a casa sua per mostragli delle foto, e lui riconobbe l'assassino di Calabresi. Ma non lo disse, perché voleva vederlo di persona, e ne avrebbe parlato il giorno dopo con il capo dell'Ufficio politico della questura milanese, il dottor Allegra, che l'aveva già convocato. L indomani, però, Allegra non gli mostrò quelle foto, che di fatto sparirono dal processo. Per 25 anni Gnappi è rimasto col suo segreto dentro, e ora ha deciso di parlarne con l'avvocato Sandro Gamberini, che ha presentato l'istanza di revisione per conto dei tre imputati. Il verbale con le sue dichiarazioni è stato raccolto il 24 ottobre scorso. «Intendo riferirvi - dice Gnappi, che oggi ha 47 anni e fa il dirigente d'azienda - un episodio che non avevo mai rivelato prima, anche perché all'epoca in cui accadde mi suscitò notevoli preoccupazioni, anzi spavento. La terza sera successiva al fatto (le prime due ero stato ospite di un mio amico a Metanopoli), verso le 22 circa, mi trovavo nella mia abitazione di via Cherubini n. 4, assieme al signor B.C., mio coetaneo e collega di lavoro dell'epoca, quando si sono presentati alla porta due uomini che hanno dichiarato di essere agenti di polizia... Mi hanno detto che intendevano mostrarmi alcune fotografie di persone sospettate dell'omicidio allo scopo di verificare se potevo riconoscere qualcuno». Gnappi si stupì, perché aspettava di incontrare Allegra il giorno dopo. «Protestai con i due - prosegue -, ma mi dissero che avevano fretta e insistevano affinché verificassi le fotografie. La cosa mi rimase sospetta e strana per cui, anche quando vidi nella terza fotografìa che mi mostravano (si trattava di foto formato tessera, ma non del tipo segnaletico) l'immagine di un uomo che mi sembrò di riconoscere con certezza come romidida, tacqui, riservandomi di dirlo al dott. Allegra il giorno succes¬ sivo». Quella sera, nel timore di essere seguito, Gnappi fece fare a B.C. che guidava la macchina e lo stava portando via da casa sua, giri viziosi e sensi unici contromano. L'indomani l'uomo andò in questura, ed ecco che cosa avvenne: «Appena entrai nell'ufficio del dottor Allegra, mentre il funzionario stava preparando le fotografie da mo¬ strarmi, gli raccontai l'episodio, anche perché mi aspettavo che mi tornassero a mostrare le fotografie della sera prima. Il dottor Allegra ebbe una reazione che mi congelò, perché fece finta di non sentire. Ho ripetuto la cosa, specificando il riconoscimento che mi era sembrato di aver effettuato, ma ne ho ricavato un atteggiamento di indifferenza». Invece di rispondergli, quindi, Allegra fece vedere a Gnappi tutt'altre foto. «Erano delle grandi fotografie di manifestazioni studentesche - ricorda il testimone - e mi chiese se riconoscevo qualcuno. Sono uscito dalla questura molto spaventato, perché dato il periodo storico che si attraversava, mi sembrava di essere entrato in un gioco pericoloso, più grande di me e della mia povera testimonianza». L'unica indicazione di Allegra a Gnappi fu di farsi un giro per le stanze della questura, dove era in attesa un gruppo di fermati, sempre per indicare qualcuno che avesse eventualmente riconosciuto, ma Gnappi non vide nessuno che assomigliava al killer. Gli rimaneva, invece, il turbamento per lo strano atteggiamento del poliziotto. «Comunicai questo spavento al mio amico C, il quale sapeva che avevo riconosciuto la sera prima una persona in fotografia, decidendo di non parlare dell'episodio più con nessuno. Non ne feci perciò cenno né al procuratore della Repubblica, quando mi convocò per ricostruire il fotofit presso i carabinieri, né ad alcun'altra autorità. Tra l'altro, circa una settimana dopo, mi fu comunicato che mi era stata assegnata una scorta che durò più di un mese». Luciano Gnappi è rimasto muto, con le sue paure e le sue inquietudini, per 25 anni, finché ha deciso di parlare. «Volevo togliermi un peso dentro che non ce la facevo più a sopportare», ha detto all'avvocato Gamberini. Agli atti c'è ora anche la testimonianza di B.C., l'amico che conferma il racconto di Gnappi. Un episodio, scrive il legale di Sofri, Bomprèssi e Pietrostefani, «che vale da solo a costituire un elemento decisivo di contrasto con l'assunto di condanna». [gio. bia.j «Voglio togliermi un peso dentro che non riesco più a sopportare» «Quando ne parlai il questore ebbe una reazione che mi congelò»

Luoghi citati: Metanopoli, Milano