Amistad, assoluzione in extremis

Nell'appartamento del presunto sequestratore, manette, nastro adesivo e fotografìe dei giovani Amistad/ assoluzione in extremis Non è un plagio il film sugli schiavi HOLLYWOOD MENZOGNA E VERITÀ' NEW YORK ■ L grande regista bianco conU tro la piccola scrittrice nera. Gli intellettuali di colore contro la pellicola che celebra la lotta (armata e giudiziaria) alla schiavitù. Il centro di ricerche storiche «Amistad» contro le libere interpretazioni dei fatti nel film «Amistad». Non è così che Steven Spielberg aveva immaginato la vigilia della sua produzione più ambiziosa, da domani sugli schermi di New York e Los Angeles, da venerdì in tutta l'America e poi via, in marcia verso gli Oscar. Aveva scelto con cura il soggetto «alto», almeno quanto quello di «Schindler's list», giacché neri e indiani hanno vissuto l'olocausto d'America. Aveva controllato ogni dettaglio di «politicai correctness». Un attore protagonista (Djimon Honsou) con una storia personale che da sola varrebbe un film: nato nel Benin, per anni mendicante a Parigi, scoperto da un fotografo, divenuto modello pubblicitario, per la prima volta sugli schermi in un ruolo che conta. Gli schiavi, tutti attori africani, che parlano i loro dialetti senza sottotitolazione per il pubblico americano. L'inserimento nella troupe di un tizio chiamato di nome Cinque, come lo schiavo ribelle, perché creduto erroneamente suo discendente. L'utilizzo di personale rigorosamente nero per mettere agli attori-galeotti catene e corde. Ciak si gira: il mondo commosso guarderà la storia vera dell'ammutinamento di un gruppo di 53 schiavi che, nel 1839, uccisero i negrieri sulla nave Amistad, approdarono in America, furono imprigionati e processali davanti alla corte suprema, dove l'ex presidente John Quincy Adams difese i loro diritti e cambiò il corso della storia. Tutto perfetto, peccato essersi dimenticati di Barbara Chase-Riboud, che nel 1988 scrisse, sull'Amistad, un libro dal titolo «Echo of the lions» e ha chiesto invano al giudice di Los Angeles Audrey Collins di bloccare il film e a Spielberg un risarcimento di 10 milioni di dollari. Il regista buono, quello che celebra tutte le minoranze, siano neri, ebrei o e.t., si è dunque trovato alla sbarra come un volgare plagiare, per di più a spese di una donna di colore. Il giudice californiano aveva di fronte un vero giallo. Questi erano gli indizi di colpevolezza nei confronti di Spielberg. Primo: già nell'88, quando uscì 11 suo libro, la Chase-Riboud fu convocata dalla casa di produzione del regista (allora la Amblin), che aveva ricevuto il manoscritto con una lettera di accompagnamento firmata dall'editrice: Jacqueline Kennedy Onassis. Non se DIl regi ne fece niente. «Mai saputo nulla, mai letto il manoscritto», ha detto Spielberg. Davvero cestinava le lettere della vedova Kennedy? Secondo: lo sceneggiatore del film, David Franzoni, anche lui all'apparenza ignaro dell'«Echo of the lyons», era stato chiamato da un altro produttore a studiare un progetto di film sulla Amistad. Il progetto aveva come nome provvisorio: «Echo of the lions». E lui non lo ha davvero mai letto? Terzo: nella sceneggiatura c'è un personaggio, un abolizionista nero interpretato da Morgan Freeman, che non è realmente esistito nella storia, ma che esiste nel libro della Chase-Riboud. Come non è mai esistito (quarto), se non nel film e nel libro un incontro a tu per tu fra l'ex presidente e il capo dei ribelli, con dialoghi curiosamente simili tra schermo e pagina. La difesa ha replicato: la Amistad è storia, chiunque può raccontarla, nessuna scrittrice, sep¬ pur nera, ne ha il monopolio. Ha contrattaccato: l'unico plagio l'ha commesso la Chase-Riboud e dimostra 88 punti di contatto tra il suo libro e «Black mutiny», pubblicato 36 anni prima, di cui la casa di produzione di Spielberg ha acquistato i diritti. Poco signorilmente ha aggiunto: questa signora non è nuova ai plagi e mostra le somiglianze tra un altro suo libro e un testo precedente, di diverso autore. Ha concluso: quella della nave Amistad è una storia che appartiene al mondo, talmente nota che anche uno dei rapitori di Patricia Hearst si fece chiamare, in codice. Cinque, come il capo degli schiavi. Talmente nota che, prima di sentirsela proporre, Spielberg non la conosceva. Talmente nota che è stata rimossa per 150 anni. «E ora - ha dichiarato a Newsweek l'editore afroamericano Haki Madubuti - arriva un regista bianco e ci fa su un film. Non dico che Spielberg non sia capace di farne un buon prodotto, ma la storia dei neri dovrebbe essere raccontata dai neri». Voleva provarci Spike Lee, infatti, ma non aveva abbastanza soldi. La «Dreamworks», appena fondata da Spielberg, ci ha investito 70 milioni di dollari. E ora perchè mai avrebbe dovuto fermare i proiettori per colpa di una scrittrice nera, delle perplessità di qualche intellettuale, delle proteste di Clifton Johnson, fondatore del Centro ricerche Amistad di New Orleans che dichiara «hanno manipolato la storia»? La storia non esiste, è memoria e affabulazione, immagini ricreate e parole verosimili, cinema, in definitiva. JFK, come noto, è un personaggio che moriva all'inizio di un film con Kevin Costner. La «Amistad» si è ammutinata 158 anni fa, gli Stati Uniti d'America hanno continuato per anni a usare uomini neri come animali da tiro, ma ci è voluto un film per aprire un dibattito sul «peccato originale», sul significato di quel che accadde e sull'opportunità di pubbliche scuse. Quando lo aveva proposto il presidente Clinton, nessuno lo aveva ascoltato. Non che serva, ma sarebbe stato un bel segnale. Come, chessò, devolvere parte degli incassi di «Amistad». Spielberg, che è uno dei maggiori filantropi di Hollywood, probabilmente lo farà adesso, a causa vinta. «Non vedere questo film - ha commentato il regista, padre adottivo di due bimbi di colore - sarebbe stata una perdita per tutti gli americani». Qualche dubbio ce l'hanno i critici. La recensione su «People» parla di una «conduzione incerta su quale storia narrare», di un esito «più sottomesso che drammatico», di un cast in parte sprecato. Per Spielberg, la condanna più dura. Gabriele Romagnoli Una scrittrice sosteneva che la vicenda della rivolta era copiata da un suo libro Da domani sugli schermi Usa Il regista: è un patrimonio di tutti Critici i neri: «Quella storia toccava a noi raccontarla» Il regista Steven Spielberg con la moglie Kate La coppia che vive a Los Angeles ha sette figli A sei mesi dai fatti un giornale di Santa Monica di nome «Outlook» è riuscito a svelare il nome dell'arrestato Jonathan Norman 31 anni che voleva rapire uno dei suoi fisi) ifct&iiài Due scene di Amistad (a sinistra e sopra) l'ultimo film di Spielberg A destra il regista con Anthony Hopkins