Quel patto tra Riina e le imprese del Nord

Quel patto tra Riina e le imprese del Nord Già nel '92 a Di Pietro il geometra Li Pera parlò del comitato d'affari che controllava gli appalti in Sicilia Quel patto tra Riina e le imprese del Nord MILANO. Si è molto parlato e polemizzato sul tragico errore provocato negli anni passati dall'invio dei boss al confino nelle regioni più ricche e industrializzate del Paese, con il risultato di esportare la mafia e i suoi metodi fuori dalla Sicilia. Un imbarazzato silenzio sembra avvolgere invece le notizie che emergono anche in questi giorni dalle inchieste dei magistrati di Palermo e di Caltanisetta che indagano in tema di mafia e appalti sul livello di collusione tra alcune grandi imprese nazionali e le famiglie di Cosa Nostra, in terra di Sicilia. Imprese del Nord colluse con Cosa Nostra, in nome di alcuni buoni affari. Carenza di senso dello Stato, un grave deficit di etica, ma forse anche di peggio. Chi ha ancora negli occhi e nel cuore i cadaveri martoriati dei poliziotti straziati con Chinnici, Falcone e Borsellino fa fatica a credere all'altra faccia del potere criminale di Cosa Nostra, quello ricostruito negli interrogatori di Angelo Siino, il ministro dei Lavori pubblici di Totò Riina. Siino ha raccontato a verbale le riunioni operative con i manager della Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi-Gardini per la spartizione di grandi appalti pubblici. Il gruppo Ferruzzi non è però un'eccezione. Di un «comitato d'affari» composto da politici come Salvo Lima, da imprenditori siciliani come i catanesi Rendo, Costanzo e Graci ma anche da imprese nazionali (Astaldi, Tomo, Lodigiani, Cogefar, Uva, Grassetto, sono alcuni dei nomi messi a verbale) che per anni ha controllato il sistema di appalti in Sicilia aveva già parlato ai pm di Catania, Felice Lima e allo stesso Antonio Di Pietro, già nel novembre '92, Giuseppe Li Pera, il geometra della Rizzani De Eccher che con Siino era finito nell'ormai famoso rapporto del capiiano dei Ros, De Donno. Rileggiamo quelle dichiarazioni, mai smentite: «Le imprese siciliane, più un ristretto gruppo di imprese nazionali, avevano il potere decisionale sulla spartizione degli appalti che veniva Qe l coordinata, in rappresentanza di questi imprenditori da Filippo Salamone, imprenditore di Agrigento...la componente mafiosa interviene nella fase della gestione degli appalti, garantendo la funzionalità del comitato d'affari.. .il tutto è regolato da una ferrea disciplina e dal rispetto delle regole che, in Sicilia, viene garantito dalla mafia e per quanto riguarda i rapporti all'interno del comitato dall'imprenditore Angelo Siino. .la sua forza gli deriva, come risaputo da tutti, dai suoi legami con Cosa Nostra». E, a scanso di residui dubbi, il geometra mandato dalla Rizzani De Eccher in Sicilia per sviluppare il settore commerciale dell'impresa di Bolzano spiegava: «Nell'ambiente queste cose si sanno, anche se nessuno ne parla. Chi viene a contatto con queste persone sa che deve essere cauto perché essi hanno un ruolo non solo come imprenditori ma come referenti o protetti dal potere mafioso». Parole che valgono mille convegni e saggi sulla crisi della nostra classe dirigente. Aldilà delle reazioni più emotive suscitate dalla sola idea che mentre a Palermo si moriva c'era chi sbarcava a Punta Raisi in doppio petto per trattare affari con i referenti di Cosa Nostra non può sfuggire come questo scenario confermi che la lotta alla mafia è molto di più che un semplice problema di tutela dell'ordine pubblico. Quale legame mai ci poteva essere tra un boss come Riina e un imprenditore del Nord? Per capirlo è bene riprendere l'analisi che Giovanni Falcone fece a Milano, nell'aprile dell'89, durante una tavola rotonda sul sistema degli appalti organizzata a rd dal Centro di difesa sociale. Molto prima di Mani Pulite ai pm Colombo e Davigo, Falcone spiegava l'esistenza In Sicilia di un vero «un gruppo di comando», in grado di stabilire a chi debba essere aggiudicata una certa opera pubblica. Non solo. A questa trafila, secondo Falcone, si dovevano attenere tutte le imprese «quali esse siano: settentrionali, meridionali o addirittura straniere». E' purtroppo sempre più evidente come molti imprenditori a quella trafila non si affatto sottratti. Del resto perché autoescludersi dal mercato? In nome di che cosa? Imprese mafiose, imprese colluse con la mafia, imprese che la subiscono. E però, fin da allora, Falcone segnalava un salto di qualità nella strategia di Cosa Nostra sempre più lontana dalla mafia pre-anni Settanta: Cosa Nostra detiene una notevole massa di denaro che deve trovare uno sbocco; la legge RognoniLa Torre che ha permesso il sequestro dei capitali dei mafiosi e dei loro familiari ha prodotto anche un effetto perverso: la ricerca di imprese «pulite» da usare come «soci occulti» ai quali affidare la gestione di ingenti capitali. Una strategia da menti raffinatissime, perché come sottolineava Falcone, in questo modo non ci sono più tracce del denaro sporco, non ci sono più collegamenti permeabili alle indagini tra boss trafficanti e riciclatori ma solo denaro liquido e transazioni ad altissimo livello. «Ed è chiaro», avvertiva Falcone, «che l'imprenditore ne risponderà ad altissimo livello». Se questo è il disegno che Cosa Nostra ha perseguito e se questo disegno ha trovato -come appare- così fragili resistenze nel nostro mondo imprenditoriale e finanziario è anche chiaro che l'attacco dei mafiosi all'ordine economico e le distorsioni che tutto ciò ha prodotto sul mercato vanno ben oltre i confini della Sicilia e della esplosiva inchiesta su mafia e appalti. Chiara Berla di Argentine