la terza uscita del professore di Valeria Sacchi

la terza uscita del professore la terza uscita del professore Prima aveva lasciato Consob e Ferruzzi UOMO SCOMODO SENZA RIMPIANTI PMILANO ER la seconda volta Guido Rossi lascia un alto incarico pubblico d'improvviso. 0 per la terza, se si vuole considerare anche il suo impegno nella crisi del gruppo Ferruzzi come teoricamente volto a tutelare il bene comune. La prima, agosto 1981, fu quando se ne andò dalla presidenza della Consob dopo soli sei mesi, la seconda (Ferruzzi) quando nel febbraio 1995 si dimise dalla presidenza dell'ex regno di Raul Cardini (dove era stato per ben venti mesi), questa volta se ne va dopo dieci mesi esatti. Correva infatti il venerdì 26 gennaio quando il governo decise di non riconfermare i vecchi vertici Stet e scelse, come successori di Biagio Agnes e Ernesto Pascale, Rossi e Tomaso Tommasi di Vignano. La prima volta, l'uscita dalla Consob nacque da un ben preciso fatto: lo scontro con Bankitalia (governatore Carlo Azeglio Ciampi) per la quotazione, finita drammaticamente, del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La seconda, caso Ferruzzi, fu meno chiara, anche se da tempo Rossi ripeteva di considerare conclusa la fase dell'emergenza e quindi il suo mandato. Col senno di poi (anche se lui non ne ha mai parlato) non è difficile capire che le sue dimissioni anticipate rispetto alla scadenza assembleare, e a sorpresa, avevano anche altre ragioni. Quasi certamente egli non condivideva alcuni progetti futuri, tra i quali Supergemina. Oggi, teoricamente, Rossi lascia Telecom a privatizzazione avvenuta, vale a dire a missione compiuta, come del resto aveva anticipato accettando il mandato. E non è una cosa da poco. Quasi certamente, senza di lui, i tempi del passaggio al privato della società sarebbero stati più lunghi ed incerti. Ma in realtà lascia prima di aver concluso un impegno che aveva preso soprattutto con se stesso: dare al gruppo delle regole di corporate governance che ne facessero un modello nuovo di public company. Scrivono i bene informati che avesse chiesto i poteri per farlo, senza ottenerli. Ed è un peccato perché, se è vero che Rossi è uomo ambizioso e testardo, molto spesso scomodo, è anche vero che la sua ambizione di giurista first class è quella di legare il suo nome a qualcosa di valido, ben lontano da suoi tornaconti. In questo caso, forse, la «public company secondo Guido Rossi»: l'unico schema in grado di completare la privatizzazione, di evitare che, alla Stet pubblica, si sostituisca la Stet del management, che poi è tutto di antiche origini. Questo modello non ci sarà. Anche chi non conosce le storie segrete di queste dimissioni, capisce che a vincere è comunque l'establishment, la vecchia Stet basata su connivenze, forti protezioni, eccetera, eccetera. Un copione risaputo, un drappello duro a morire come le radici delle querce. Non è un caso se alla vicepresidenza è stato chiamato Piergiusto Jaeger, anche lui giurista affermato, anche lui esperto societario. Che ha tuttavia alle spalle otto anni di vicepresidenza in Stet (dal 1984 al 1992) nelle ere Graziosi e Agnes. Ed è quindi persona che conosce per filo e per segno la macchina Stet, con relativi capi e capetti. La corporate finance di Rossi sarebbe stata qualcosa di diverso. Delle sue dimissioni si sono rammaricati i vertici Enel, Chicco Testa e Franco Tato, anche per loro è un segnale. Che farà ora Rossi? Probabilmente ritornerà a vita privata, al suo studio di super consulente, ai suoi quadri, ai suoi libri antichi e alla famiglia, all'insegnamento universitario. Anche se domani potrebbe lasciarsi tentare da altre sfide, come ad esempio quella di dare volto ad una nuova Authority. Sempre che i politici non lo giudichino, ora, troppo scomodo. Perché, nonostante le amate collezioni e le amate figlie, Rossi è un uomo che non riesce a stare fermo a lungo. Valeria Sacchi Carlo Azeglio Ciampi