Netanyahu: per la pace una Camp David in Italia

Netanyahu: per la pace una Camp David in Italia INTERVISTA IL PRIMO MINISTRO m ISRAELE «Inaccettabile uno Stato palestinese. Non m'interessa essere popolare» Netanyahu: per la pace una Camp David in Italia ■GERUSALEMME L primo ministro di Israele, Benyamin Netanyahu, sta tentando di riaprire il processo di pace. In queste ore cruciali ha concesso un'intervista esclusiva al direttore de La Stampa, Carlo Rossella, a Fiamma Nirenstein ed al corrispondente diplomatico, Maurizio Molinari. Signor primo ministro, lei ha tante volte dichiarato che sorprenderà tutti con il dono della pace in Medio Oriente. Ma non si è visto nulla. Pensa forse di mantenere la promessa offrendo di ritirarsi da circa 1' 8 per cento dei Territori Occupati prima del negoziato definitivo? «Mi piacerebbe ma certo bisogna essere sempre in due a ballare il tango. Io ho fatto la mia mossa, che mi sta costando molte critiche in un dibattito apertosi proprio oggi nel mio governo. Adesso tocca ad Arafat provare il suo impegno nella lotta al terrorismo». Prima di parlare di Arafat, ci faccia capire qual è il suo piano. «L'idea centrale è di una trattativa su un pacchetto di proposte che porti alla definizione dello status definitivo, perché trattare punto per punto prende troppo tempo ed il tempo è prezioso anche per evitare gli attentati terroristici; e poi, paradossalmente, la trattativa complessiva è più ordinata perché tutti capiscono meglio cosa danno e cosa prendono...». Quindi lei come prevede l'assegnazione dei poteri ai palestinesi? «Ci sarà un potere territoriale dei palestinesi per cui la popolazione avrà il pieno controllo delle infrastrutture e dell'economia. E poi un potere funzionale, che deve essere invece condiviso, come per l'ambiente, l'acqua. Infine il potere legato alle questioni di sicurezza, che non possiamo delegare». Come pensa che Yasser Arafat possa mai accettare questa logica? indispensabile per tutto il mondo, e lo vedete voi per primi in Europa, uscire dalla vecchia logica dell'alternativa fra sottomissione e autodeterminazione. La prima è moralmente inaccettabile, la seconda è pragmaticamente inaccettabile. Solo la terza via è possibile: accettare di autoamministrarsi, limitando i propri poteri». Ma invece di partire dalla concessione del 6-8 per cento dei Territori, che ha già scontentato tutti, non sarebbe meglio riconoscere il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato? «Deve essere chiaro che il 98 per cento dei palestinesi già vive all'interno di un'Autonomia in cui i poteri civili appartengono al loro governo. Il punto è che il concetto di sovranità nazionale normalmente si associa a dei poteri che potrebbero mettere in pericolo la nostra sicurezza. Quel che voghamo evitare è che l'Entità palestinese importi missili, carri armati ed altre armi che possono essere usate contro di noi. Oppure che sigli patti militari con Paesi a noi ostili come l'Iraq o l'Iran. Un altro rischio è lo spazio aereo: non è possibile condividere un cielo piccolo come il nostro. Le nostre forze aeree non potrebbero più neanche levarsi in volo. Già l'accordo di Oslo prevede che il porto e l'aeroporto palestinese a Gaza su cui stiamo trattando debbano essere usati per scopi civili e certo non per l'importazione di armi». Ma nella sua nuova proposta non ha tenuto conto di quello che gli americani e tutto il mondo le chiedono: interrompere la costruzione degli insediamenti per tutto il periodo delle trattative. «E' una richiesta avulsa dalla realtà. E che nessuno aveva fatto a Rabin, che aveva costruito più di me nei Territori. Sappiate che solo l'I per cento della Cisgiordania è abitato da coloni e che i progetti di sviluppo degli insediamenti sono solo un decimo di quell'I per cento. Nello stesso periodo hanno costruito assai di più i palestinesi contro l'accordo di Oslo». Ma lei ha compiuto dei gesti simbolicamente esplosivi rispetto alla pace, come l'apertura del tunnel nella Città Vecchia. «Quel tunnel esisteva da sempre, non passa sotto le moschee, ed io ho solo consentito, facendo abbattere una parte di muro, che i visitatori potessero camminare in due direzioni, anziché solo in una». Visto che la sua valutazione dei fatti resta così distante da quella dei palestinesi non crede che ci vorrebbe una nuova Camp David fra lei, Clinton ed Arafat? «Penso che sia possibile. E perché no, forse potrebbe svolgersi proprio in Italia quella fase delle passeggiate nei boschi che serve per concludere degli accordi difficili. Non prendetela come uno spunto politico, è solo una mia personale simpatia per il vostro Paese». Lei condiziona ogni suo passo ad un drammatico impegno di Arafat contro il terrorismo. Ma non le sembra che questo punto di vista sia soggettivo e quindi pretestuoso? «Altro che pretestuoso! Arafat non ha mantenuto gli accordi di Oslo. Non ha estradato i terroristi, non ha fermato le violenze, non ha smantellato le infrastrutture terroristiche, non ha sequestrato le armi, non ha emendato la Carta palestinese che prevede la distruzione dello Stato di Israele». L'impressione diffusa a livello internazionale è però che queste sue preoccupazioni servono di fatto a rallentare il processo di pace. «Il processo di pace è una mera espressione verbale se non si riesce a fermare il terrorismo. Negli ultimi due anni e mezzo del governo laburista, Hamas ha ucciso 250 civili. Come se in Italia fossero morte per le strade 4000 persone. Arafat, fra la pace con Israele e la pace con Hamas, ha scelto quella con Hamas. Io sono stato eletto per siglare una pace sicura. Non dimenticatevi che mentre Rabin fece passare l'accordo di Oslo alla Knesseth con solo 61 voti contro 59, noi abbiamo completato lo sgombero di Hebron, il più difficile di tutti, con il 75% dei voti in Parlamento. Noi solo possiamo fare la pace». Ha mai preso in considerazione la possibilità di trattare direttamente con Hamas? «Trattare su che cosa? Sulla di- struzione di Israele, sulla mia decapitazione? Del resto anche l'Italia non ha mai trattato con le Brigate rosse, le ha smantellate». Al vertice di Sharm el-Sheik del 1996 contro il terrorismo l'Occidente ed i Paesi arabi moderati compresero che era indispensabile allearsi per batterlo. Che fine ha fatto quel patto? Dai Paesi arabi moderati non si sentono che critiche contro Israele... «Lo smantellamento del terrorismo è stata la premessa per la pace. Così è avvenuto per l'Egitto, dove non esistono più le basi dei feddayn anti-israeliani, e lo stesso vale per la Giordania. Col Libano ci potrà essere la pace soltanto se saranno smantellate le basi degli Hezbollah. Discorso uguale per Arafat. O le leaderslùp arabe escono vincenti da questo scontro con il radicalismo islamico o saranno distrutte più di noi da tutto quell'odio e quel fanatismo». Dove sono oggi i più minacciosi nidi del terrorismo? «In Cisgiordania e Gaza, con l'acquiescenza dell'Autorità palestinese, e in Libano, con la protezione dei siriani». Perfino alcuni generali israeliani chiedono il ritiro dal Libano. Non pensa che il Paese dei Cedri sia diventato il Vietnam di Israele? «Magari il Libano fosse distante da Israele quanto era il Vietnam dagli Stati Uniti». Che effetto le ha fatto sentire il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, chiedere da Beirut il ritiro di Israele dal Libano? «Io sono il primo a desiderarlo. Magari ce ne potessimo andare. Ma in Libano ci sono anche gli Hezbollah e le truppe siriane...». Rabin aveva capito che senza ridare il Golan non si poteva arrivare alla pace con la Siria. Lei è d'accordo? «Il principio che non accetto è promettere qualcosa ancor prima di cominciare a trattare». Ma allora non vi sarà alcuna pace con Damasco. «Io credo che raggiungendo dei reciproci e solidi accordi sulla sicurezza sia possibile: così avvenne con l'Egitto. Ma in quel caso c'erano in mezzo centinaia di chilometri del Sinai, qui c'è solo una ripida collina che sovrasta tutto Israele». Ma la pace con l'Egitto, basata sulla sicurezza piuttosto che sulla reciproca comprensione, resta sempre una pace fredda. «Sì, ma la pace con l'Egitto in vent'anni, pur con i suoi alti e bassi, non si è mossa di un centimetro. Con il tempo tutti i Paesi dell'area comprenderanno i reciproci benefici provenienti dalla pace. E questo, oltre alla sicurezza, sarà l'altra grande garanzia». Da dove viene oggi la più pericolosa minaccia strategica per Israele? «Dall'Iran. Perché l'Iraq ha minori mezzi e appetiti solo regionali. Teheran invece ha ambizioni globali perché è uno Stato ideologico, che si arma indisturbato con l'aiuto della Russia. L'Iran si sta dotando di un consistente arsenale nucleare e chimico, la sua bomba atomica sarà pronta in 15 anni. Non è un problema israeliano ma italiano, europeo, americano». Ci sono voci insistenti che Washington, stanca della politica israeliana, stia preparando una proposta per l'area. Che effetto le fa questa possibile rottura con il grande alleato? «Non sarebbe certo la prima volta che ci sono delle divergenze con gli americani dalla guerra dei Sei Giorni. Ma questo non ha mai spezzato il nostro grande rapporto. Noi viviamo qui, loro al di là dell'Oceano. Siamo flessibili ma abbiamo delle responsabilità sulla nostra sicurezza a cui non possiamo venir meno». A dicembre andrà a Washington? «Non ho ancora piani in proposito. Un incontro con Clinton non è un premio. Può avvenire solo per motivi di reciproco interesse». Come valuta il fatto che l'Europa è ancora più critica dell'America nei suoi confronti? «Forse a causa del suo passato coloniale l'Europa non capisce bene quello che avviene qui. Questa non è l'Indocina, né l'Etiopia. Immaginare Israele come un potere coloniale che ha occupato un Paese arabo è uno dei più grandi errori storiografici. A volte è comico vedere come la stampa europea ci attribuisce una valanga di violazioni di Oslo ma ignora quelle palestinesi. Ma a me non mteressa essere popolare, non voglio premi. Voglio solo una pace vera per proteggere l'unico Stato ebraico». Lei ha un buon rapporto con Prodi ma talvolta il nostro ministro degli Esteri, Lamberto Dini, la critica apertamente... «Non lo prendo come un fatto personale». L'Italia ha solide relazioni con i Paesi arabi. Questo può servire al negoziato? «E' molto positivo che l'Italia abbia un buon rapporto con gli arabi. Ma il processo di pace ha due partner: Israele e gli arabi. Non si può fare la pace senza gli israeliani. L'automatismo filopalestinese fa nascere dei dubbi sulle buone intenzioni di quel mediatore onesto che anche l'Europa vuole essere». Il presidente di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, cerca da tempo di avere un appuntamento con lei in Israele. Lo riceverà? «Non ci ho pensato. Vengo spesso in Italia, incontro i miei amici che stanno nel governo Prodi, con cui ho un ottimo rapporto, ed altri amici personali. Per il resto non mi metto a l'issare appuntamenti di là dal confine con altri personaggi politici». Dai suoi buoni rapporti con Prodi cosa si aspetta? «Conosco Romano Prodi da prima che diventasse premier. Durante una sua visita rimase molto colpito dal grande sviluppo della hightech israeliana. Mi piacerebbe che i nostri due Paesi potessero scambiarsi esperienze soprattutto in quel campo. L'economia in Israele va bene, gli investimenti stranieri si sono moltiplicati soprattutto nella tecnologia». Nonostante la crisi del processo di pace? «Sì». Il Papa verrà in Israele prima del Duemila? «Ho incontrato il Papa da poco e mi ha detto che gli piacerebbe venire entro il Duemila. Sarebbe di enorme significato per la pace in tutto il mondo se venisse qui a celebrare la nascita di Gesù». Ogni giorno si legge sui giornali israeliani che il suo governo sta per cadere. Lei suscita delle autentiche ondate di antipatia fra i suoi e nel mondo. Chi sarà il prossimo premier di Israele? «Posso promettere che non intendo essere eletto per più di due volte consecutive». Cario Rossella Maurizio Molinari Fiamma Nirenstein GUARDANDO A ROMA «Con Prodi ho un ottimo rapporto 10 conosco da prima che diventasse premier. Scalfaro a Beirut chiede 11 nostro ritiro dal Libano? Magari ce ne potessimo andare. Ma lì ci sono anche Hezbollah e i siriani» IL GELO CON WASHINGTON «Dalla guerra dei Sei giorni non è la prima volta che ci sono dissidi con gli americani. Questo non ha mai spezzato il nostro rapporto. Ma noi viviamo qui loro dall'altra parte dell'Oceano IL CASO FINI «Se riceverò Fini? Non ci ho pensato Vengo spesso nel vostro Paese, vedo i miei amici nel governo e quelli personali. Ma per il resto non mi metto a fissare appuntamenti oltre confine con altri personaggi politici» m'interessa essereo Qui accanto un'immagine di scontri nei Territori. Nella foto grande Netanyahu e in quelle piccole in alto, da sinistra, il premier israeliano con Prodi e con Clinton e il leader di An Gianfranco Fini