Profeta della modernità
Il museo immaginario del critico Verhaeren a Bruxelles Il museo immaginario del critico Verhaeren a Bruxelles Profeta della modernità «Manet vale l'intera storia dell'arte» BRUXELLES NGIUSTAMENTE trascurato, da noi, è l'eccentrico scrittore belga Emile Verhaeren, che a fine secolo furoreggiava a Parigi e scomparve nel 1936, travolto da un treno: è considerato il grande «traghettatore» della cultura francese in Belgio (celebre per le monografie su Rubens, Ensor e Rembrandt, precoce riscopritore di Breughel, Turner e Blake), per cui a Bruxelles gli è stata dedicata l'affascinante mostra «Un museo immaginario» (collegata alla preziosa rassegna «Paris/Bruxelles/Paris» al Museo delle Belle Arti di Gand). Così è stata presa a prestito l'elegante palazzina del pittore e mecenate Van Cutsom, che già ospita l'atelier dello scultore Chartier, caro a Verhaeren, e si è tentato di ricostruire il museo ideale di questo straordinario critico-conoscitore. Perché oggi, grazie anche all'ottima edizione degli Scrìtti d'arte curati da Paul Aron per Labor si scopre in Verhaeren un geniale «inventore» della critica d'arte moderna, degno di stare accanto a Mallarmé, Huysmans e Baudelaire (e forse anche preda di minori forzature personalistiche). «Vorrei che l'arte stridesse, gridasse la vita!» era il suo motto. Ma non si pensi a eccessi vitalistici o melodrammatici. La sua prosa era sottile e autoironica, fantasiosa e imprevedibile. Era capace di adorare Rops «ultimo pittore del peccato, come Toulouse lo è del vizio», ma anche lo sfumato Redon «primo pittore moderno». Pronto a passare indenne attraverso il populismo miseralista di Meunier «che adatta l'arte greca alla dignità degli operai» per ricomparire poi fra i neri miasmi simbolisti di De Nun- cques o i deliqui della grafite di Khnopff, cui «la tirannia dell'idea, come in Mallarmé, permette di sfuggire allo sminuzzarsi descrittivo». Sin da giovane, sono i suoi bersagli spregiudicati a colpirci: l'esigenza di combattere il poncif dei pittorastri d'accademia, il rifiuto delle sclerosi espressive, la necessità di una calcolata Modernità. Oggi è facile elencare i nomi degli artefici di queste oltre 230 opere, e sono tutti celeberrimi, da Degas a Van Gogh, da Rodin a Ensor, da Laormans a Moreau e van Dongen, da Anquetin a Spillaert. Ma anche Minne, lo scultore del quasi nulla concettuale che canta «l'estrema miseria, l'andare a rotoli della speranza, l'irrimediabilità del tutto. I suoi personaggi sono pressoché al di là della possibilità di esserci...». Gli interessava soltanto intravedere le parentele più sotterranee, stabilire strane connessioni con la poesia, tanto più che «ogni parola ha la sua silhouette e una frase è già un paesaggio». Vuole difendere l'autonomia dell'arte, contro i precetti engagé di un Taine, gli pare di ascoltare le pareti stesse dei musei lamentarsi di tante brutture, che si sosti¬ tuiscono all'antico. E così com'è stato capace di identificare una «linea sanguigna» che va da Van Eyck a Rubens, non si preoccupa di difendere da un lato 1'«invenzione della luce» impressionista, dall'altra di capire che le spesse paste notturne e demoniche degli artisti fiamminghi hanno altrettanto ragione di esistere. Gli sta a cuore soprattutto il rinnovamento del linguaggio, il muoversi stesso delle arti. Magari non condivide la svolta «grottesca», gotica, di Ensor, con quel «vento fantasmagorico che gli soffia nel cervello». Ensor si vendica dedicandogli un bellissimo ritratto in cui sta appuntando la matita della polemica, sullo sfondo di uno sfacciato suo dipinto gremito di grotteschi. Mentre in Russia si fa modellare la maschera dal pittore Pasternak, incanta, con racconti sull'amico Rilke, un ragazzino che diventerà l'autore del Dottor Zivago. Nonostante lo trovi «irsuto e minaccioso come una muraglia cinese» apprezza di Degas quelle sue «pose che durano un istante». Sottrae allo studio di Gallimard l'impressionante ciclone del Teatro popolare di Carriero e intuisce che «l'insospettata luce gettata sulle cose» da Manet «vale tutta la storia dell'arte». Ma quando entra nello studio di un giovane sconosciuto che si chiama Seurat, pur non sapendo nulla di pointillisme «come una frustata mi colpì il mai-percepito che è nella Grande Jatte (che) mi invitava a dimenticare i colori e non mi parlava che di pura luce». Profeta della jouissance, della critica come invito alla trasposizione di linguaggi, Verhaeren dimostra una moderna originalità, ancora invidiabile oggi. Marco Vallora Willy Schlobach: «Ritratto di Emile Verhaeren», probabilmente del 1885
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